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di Walter De Stradis

 

 

 

Il cavalier Michele Prestera è il tipico

Levantino (è per metà Lucano e per

metà Venezuelano) dal piglio fattivo,

con i capelli e baffi bianchi che spiccano

sulla pelle olivastra. Dopo essere già

stato diverse cose (sindacalista di lungo

corso, vice sindaco a San Chirico Raparo,

nonché co-fondatore ed ex presidente del

Parco della Grancia) attualmente è presidente

del Centro di Solidarietà Don Tommaso

Latronico ETS, che dal 1991 si occupa di

sostegno alimentare, convenzionato col

Banco Alimentare della Campania. E’ inoltre

membro della segreteria regionale di UIL

Pensionati, con delega all’handicap e in

ambito culturale e storico ricopre la carica di

presidente del Centro Studi “Carlo Alianello”

APS.

D - Cavaliere, come giustifica la sua esistenza?

R - Grazie a Dio non mi sono costruito da solo

(sorride), ma esisto a seguito dell’incontro tra

mio padre e mia madre. Sono nato a Caracas,

Venezuela, ma sono cresciuto in un piccolo

paese come San Chirico Raparo; in questo

modo ho scoperto una serie di sollecitazioni,

provenienti dalla cultura popolare lucana,

dai rapporti di vicinato; si tratta di valori in

cui ancora mi riconosco, oltre all’esperienza

cristiana che ancora oggi mi sostiene in ogni

cosa che faccio.

D - Come nasce e di cosa si occupa il Centro

Solidarietà Don Tommaso Latronico?

R - Don Tommaso Latronico, originario di Nova

Siri, è stato il fondatore di Comunione e

Liberazione in Basilicata. Io lo conobbi

una cinquantina d’anni fa, 1973-73; ero un

operaio metalmeccanico, e rimasi affascinato

da questo suo progetto che allora si avviava.

Fui uno dei primi ad aderire a questa proposta

cristiana, all’insegna del “qui e ora”. Il

Cds è solo una delle tante realtà venutesi a

creare, ma ancora oggi assiste oltre cento

famiglie bisognose. Ma quella del “dono”

è solo una risposta fi sica; si tratta in realtà

del bisogno di condividere un’esperienza,

acquisendo maggiore consapevolezza di sé e

del senso della vita.

D - Cento famiglie riferite a quale territorio?

R - Potenza. Con la partenza, a settembre, del

Banco alimentare regionale, rafforzeremo e

allargheremo la nostra presenza.

D - Che tipo di assistenza offrite a queste

cento famiglie?

R - Oltre al fabbisogno alimentare, c’è un tipo

di sostegno, psicologico, che si traduce

nel rispondere a domande sulla vita,

dando risposte che in qualche modo fanno

risollevare la persona.

D - Quindi è vero che a Potenza la povertà non

è solo “economica”, ma anche e soprattutto

sociale? E’ vero che c’è molta solitudine?

R - Esattamente. E col Covid questa realtà si è

accentuata. La paura di avere contatti con

l’altro, porta alla diffidenza, che a sua volta

rende il clima sociale a rischio. Ognuno,

dunque, pensa di avere di fronte a sé un

avversario”, il che rende molto difficile

collaborare, creare magari un’associazione,

un’attività culturale e quant’altro.

D - Alcuni suoi colleghi del sociale

lamentavano l’assenza di comunicazione

che in primis si registrerebbe proprio fra

voi operatori del settore (associazioni, enti

benefici e quant’altro).

R - Ed è così. Riallacciandomi anche alla

mia attuale esperienza nella Uil in ambito

disabilità, tempo fa ho scritto una lettera

a disagio, onde dar vita a un Osservatorio

comune, e abbattere questi muri di diffidenza,

di pregiudizio, questi “isolotti” che si sono

venuti a creare. Da solo nessuno può farcela.

D - Ma perché ci sono questi “orticelli” anche

nel volontariato? E’ un atteggiamento

tipicamente potentino?

R - No, io ritengo che ci sia proprio la paura

di mettersi insieme, la paura che qualcuno

possa invadere il campo dell’altro.

D - Associazionismo e volontariato possono

rivelarsi una “vetrina” per altri scopi?

R - Sicuramente. Purtroppo, l’esperienza

ci insegna che su certe vicende c’è chi

ha strumentalizzato e si è costruito una

postazione di potere. Tuttavia, io ancora

sostengo che se questa esperienza di amore

riesce a scavalcare certi ostacoli, insieme si

può ancora costruire e bene. L’uomo non è

fatto per vivere da solo; basta ritrovare il

senso genuino della solidarietà nei confronti

dell’altro.

D - Come Cds ricevete fondi pubblici? Come

vi sostenete?

R - Con il 5 x mille, tra l’altro siamo stati la

prima esperienza in Basilicata (parliamo

di fi ne 1991), e quindi -nonostante i fondi

non bastino mai- diciamo che una certa

tranquillità” ormai ce l’abbiamo.

D - Si può tracciare una sorta di “identikit”

del povero dei giorni nostri, qui a Potenza?

R - Come dicevo, non mi fermerei alla questione

del fabbisogno alimentare: vedo delle

persone smarrite, sfiduciate, senza un senso

della vita, ingabbiate in una sensazione

da cui non riescono più a uscire. Il nostro

compito diventa quindi quello di sganciarli

da quella dimensione, esaltare la persona,

rimetterli in gioco riguadagnandoli al gusto

per la vita.

D - E come si fa a riguadagnare alla vita una

persona che è priva di speranze?

R - Standogli affianco, e non giocando sulla

dimensione umana (cosa che spesso accade).

D - “Non giocando sulla dimensione umana”:

sarebbe?

R - Se uno vive e si cimenta in un'esperienza

d’amore, è difficile che possa approfittarsi

di quella situazione stessa. Diversamente

accade se la vera intenzione è quella di

diventare un qualcuno o un qualcosa.

D - Chiarissimo. Cambiamo argomento:

Potenza è una città a misura di disabile?

R - No, per carità.

D - Perché?

R - Barriere architettoniche, mancanza

d’attenzione...questa è una città piena di

difficoltà, per i bambini, per i disabili, un

po’ per tutti. E’ una città che ha perso la sua

identità. E’ una città che avrebbe bisogno di

essere ricostruita.

D - Siamo a poche ore dalle elezioni comunali.

Il prossimo sindaco su cosa si deve mettere,

immediatamente, a lavorare?

R - Per cominciare, dovrebbe valorizzare tutto

l’ambito del Terzo settore. Perché? Perché

è quella dimensione che dà una risposta

immediata a un bisogno: disabilità, banco

alimentare, infanzia, terza età etc. E parliamo

sempre di volontariato, quindi non ci sono

per lo mezzo chissà quali interessi. Bisogna

lavorare insieme su una progettualità, per

avere una città più armonica.

D - Potenza si riprende se...?

R - Se si riparte dall’uomo, dalla persona

umana, dal cuore delle esigenze dell’uomo.

D - Veniamo alla questione Grancia che, dopo

qualche difficoltà, da un po’ di tempo

è ripartita. Come sta, oggi, la sua co-creazione?

R - E qui mi apre una ferita. Oltre a esserne stato

co-fondatore, sono stato anche presidente

dell’Associazione dei Volontari del parco

della Grancia. Partimmo da zero, quando di

associazioni e realtà dedicate a quel periodo

storico praticamente non ce n’erano. Col

tempo, anche alcuni volontari sono diventati

professionisti, nonché presidenti di varie

associazioni, dando vita a un indotto di

attività culturali e storiche molto importante.

D - Però?

R - Però, come sempre accade, qualcuno a un

certo punto ritiene di essere diventato la

massima autorità in materia, con tanto di

Vangelo in tasca. E così le cose diventano

complicate. Il Parco di difficoltà ne ha avute,

ne ha, e ne avrà sempre, il problema vero è

rimettere nella giusta proporzione il rapporto

tra politica e privati. Quella della Grancia

stata proprio la prima, seria, esperienza

di rapporto tra politica e privati, ma a un

certo punto la politica ha cominciato a

sconfinare in ambiti non di sua competenza,

imponendo veti, ingerenze e prevaricazioni,

anche sulla parte “sociale”. E’ così, dopo

dieci anni di queste vicissitudini, ho preso

e me ne sono andato. E tenga conto che

io, come gli altri, ho sempre operato da

volontario, e cioè senza mai percepire

alcunché.

D - Rimaniamo in tema. Da Presidente

dell’Associazione “Carlo Alianello”, qual

è, secondo lei, il libro che tutti i lucani

dovrebbero leggere?

R - Beh, sono tre: “L’eredità della Priora”,

‘”L’inghippo” e “La Conquista del Sud”.

Alianello ha raccontato la storia dei

perdenti, dei vinti, delle persone al di fuori

di quel tipo di maggioranza che non fa

respirare la minoranza. Un tempo, la Cultura

o era di parte o non era. Invece la verità va

raccontata. E Alianello ha raccontato la

storia dei pov’r omm, di gente che ha fatto

la fame e ha pagato, anche, con la morte.

E ancora oggi nel Cinespettacolo della

Grancia ci sono cose di Carlo Alianello. La

nostra associazione nacque con l’esigenza,

che ci fu manifestata dai parenti dello

scrittore, di preservare alcuni suoi documenti

(testi, manoscritti, disegni etc.). Col Comune

di Tito facemmo dunque nascere un Fondo

Carlo Alianello, che ancora oggi, nei suoi

locali, ospita tutto questo materiale. Adesso

sarebbe necessario digitalizzarlo, metterlo in

rete: spero che con la nuova amministrazione

tutto questo si possa fare.

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di Walter De Stradis

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Dopo la sortita a Poggio Tre Galli, la nostra rubrica si sposta nuovamente dai tavoli del ristorante alle panchine rionali, per parlare con alcuni “portavoce” di quartiere, a proposito delle questioni annesse e connesse. Questa volta ci siamo recati nella Villa di Santa Maria per incontrare il signor Antonio Cossidente, da qualche anno "potentino di ritorno” (abbastanza arrabbiato, come vedremo), dopo cinquant’anni di vita e lavoro trascorsi in Veneto. Da qualche tempo, ha formato un comitato "spontaneo" di cittadini (non si tatta dunaue di un'associazione), denominato “Via Mazzini Libera e Pensante”, che abbraccia -come vedremo- diverse zone limitrofe. Anche loro (come già “i colleghi” di Via Parigi, da noi precedentemente incontrati), spesso e volentieri, si sono fatti sentire, e leggere, sulla stampa locale.

Insieme ad Antonio Cossidente, all’incontro in villa erano presenti alcuni altri residenti della zona e/o simpatizzanti e aderenti al “Comitato”.

d - Signor Cossidente, non è un caso se siamo qui nella Villa di Santa Maria: qui davanti, all’ingresso, voi del Comitato organizzaste un flash mob per protestare contro la pericolosità del tratto che si trova di fronte il cancello, comprensivo di strisce pedonali, sul quale le auto sfrecciano a grande velocità. A seguito della vostra manifestazione, il Comune ha installato, più sopra, due segnali stradali che fissano il limite di velocità a 20 km: è servito?

r - La situazione è rimasta la stessa. Quei segnali sono solo un palliativo, e tra l’altro, essendo stati messi in alto, non sono visibili agli automobilisti. Noi lo segnalammo subito, ma viene da dire che il Comune se n’è quasi lavato le mani, rendendo ancora aperta -almeno per noi- questa vertenza. Siamo stati dal Prefetto, che mi risulta abbia dato indicazione di mettere quel tratto in sicurezza, ma tutto è rimasto lettera morta.

d - Lanciamo allora la prima proposta al prossimo sindaco e alla prossima giunta. Cosa ci vorrebbe, materialmente?

r - Noi avevamo chiesto l’istallazione di un dosso, ma pare che non sia possibile, perché l’ingresso della villa è in prossimità di una curva. Avevamo quindi chiesto di mettere dei segnali lampeggianti, con pannelli fotovoltaici, ma “per ragioni di bilancio”, anche questo non è stato possibile. Lo abbiamo già urlato durante il flash mob: fin quando la sicurezza verrà considerata solo come un costo, le soluzioni adottate saranno sempre transitorie e mai risolutive. Noi non ci fermiamo. Ho chiesto un incontro con la Polizia Stradale per capire come mai un problema paia irrisolvibile. Segnalo che alcuni giorni fa, solo per un pelo, una mamma con carrozzina al seguito non è stata investita. Non escludiamo, pertanto, un nuovo flash mob. Confidiamo, comunque, nella prossima amministrazione, qualunque sarà.

d - Precisiamo che il vostro Comitato si chiama “Via Mazzini”, ma abbraccia anche altre zone adiacenti...

r - Sì, anche Rione Mancusi...il Sottopasso, Via Zara.

d - Esatto, via Zara: altra situazione che avete segnalata da tempo è quella dell’area camper. Inizialmente non funzionante per un problema “fognario”, poi risolto dal Comune, oggi ripresenta delle criticità, a quanto pare.

r - La situazione è addirittura peggiorata, tanto più che con la bella stagione e con alcuni eventi in città, i turisti arrivano. Il problema è che manca l’acqua, risorsa principale per i camperisti. Questi ultimi, quelli che si fermano qui a dormire, la mattina devono: svuotare i bagni chimici, lavare i bagni chimici, caricare l’acqua. Tutta roba che allo stato non è possibile. Tra l'altro, scaricano nelle aiuole. Su nostra insistenza, dal Comune ci è stato risposto che è un problema di Acquedotto Lucano. Ma noi, come Comitato, riteniamo che la nostra interfaccia debba essere sempre il Comune, anche se -va detto- non ci spieghiamo questa inattività da parte di Acquedotto Lucano (a cui mi risulta che il Comune abbia comunque scritto). Sì, il pozzo è stato spurgato alcune volte, ma il problema principale -ripeto- è l’assenza di acqua. Noi, di camperisti, ne abbiamo incontrati alcuni.

 

 

 

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d - Quindi i turisti CI VANNO in quell’area camper.

r - Domenica ne abbiamo incontrati sette. E tutti si lamentavano, considerato che quest’area è segnalata sull’app nazionale (nonché tramite cartelli in Inglese e in Italiano). Uno di loro infatti mi ha detto: “Se avessimo saputo, ci saremmo fermati a Matera”. Non è certo un vanto per Potenza.

d - Torniamo su Via Mazzini: il nostro giornale ha raccolto la protesta degli inquilini del “popoloso” Palazzo Gaeta, che si ritengono danneggiati dall’apposizione di un palo dissuasore (che, insieme a molti altri, è stato posto nel corso degli attesi e graditi lavori comunali di ripristino del marciapiedi), che impedirebbe il “carico e scarico”, in presenza di diversi esercizi commerciali e soprattutto di diversi anziani e malati nel condominio (in pagina pubblichiamo, infatti, la foto di un’autoambulanza costretta a parcheggiare sulla carreggiata, per soccorrere una signora del palazzo - ndr). A quanto sostengono, inoltre, identico “palo” non sarebbe stato posto all’ingresso di altri numeri civici.

 

 

 

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r - Ci siamo interrogati anche su questo. La cosa ci fu infatti segnalata a suo tempo da un esercizio commerciale, nel mentre montavano quel palo. Abbiamo cercato di capire il perché. Voglio dire, l’istallazione di quei paletti serve a impedire alle auto di sostare sul marciapiedi, ed è giusto, ma quel paletto in particolare pare totalmente ingiustificato, e finora non è stata data risposta ufficiale ai residenti. Le risposte non arrivano, sembra quasi una questione di principio. Quel palo, a parere del Comitato, non ha alcuna utilità. Saremmo ben felici di ricevere risposte in merito.

d - Parliamo un attimo di sicurezza urbana. Nelle interviste raccolte finora, relative ad altre zone della città, le lamentele in merito sono veementi, qui com’è la situazione?

r - Qui sorge un altro problema. In piazza Zara prima c’erano settanta parcheggi con strisce blu, collocati su due piazzole, che dovevano servire come collegamento con le scale mobili, ma che non sono risultati funzionali allo scopo. Adesso diventano a strisce bianche, ma noi abbiamo già denunciato che di sera -essendo tutto completamente al buio- ci vanno le coppiette, causando episodi spiacevoli: qualche giorno fa, un signore che portava a passeggio il cane lì nei pressi, è stato accusato da un “avventore”, appartato in auto con una donna, di fare il guardone! Pur senza fare la morale a nessuno, il problema illuminazione rimane serio. Tuttavia, la risposta ha sempre a che fare con le penurie di bilancio. E siamo alle solite. Tutto ciò ci ha portato a solidarizzare con quelli del “comitato” di Via Parigi, che vivono una situazione ancora peggiore. E che non si riesce a risolvere,

d - I problemi irrisolti perlomeno una cosa di buono l’’hanno portata, la solidarietà tra i quartieri. Infatti quelli di Via Parigi, a loro volta, hanno aderito all’associazione “Centro Storico”.

r - Sì, infatti. L’altra sera c’è stata una riunione dei vari comitati con i cinque candidati a sindaco (quattro, per la verità, visto che uno di loro non si è presentato), e io ho ribadito che in questa città è necessario che i comitati si coordinino tra di loro. Qui c’è una “vertenza Potenza” da mettere in piedi, sperando che quelli che verranno -nuovi o vecchi- si facciano carico di questi problemi, altrimenti rischiano di rimanere inevasi per lungo tempo. Io stesso ho proposto l’istituzione di un assessorato “alla partecipazione e alla condivisione”, onde coordinarsi con associazioni e comitati vari. Noi siamo “nati” con l’avvento del Sottopasso, quando ci chiusero e non sapevamo come scendere giù, e alcune criticità non sono state mai risolte. Penso alla segnaletica a Rione Mancusi... (a questo punto si inserisce uno dei cittadini presenti al nostro incontro, che lamenta: “Se debbo andare da Via Siena a Via Roma, non c’è il passaggio pedonale” e Cossidente: “Hanno istallato uno specchio, distante, ma non tutti riescono a vederlo” - ndr). C’è da asfaltare via Ravenna, c’è da portare indietro un palo posto lì in mezzo: tutte cose già accertate, ma rimaste lettera morta.

d - Un appello finale?

r - Lo farei ai cittadini: troppa gente, a volte, gira la testa dall’altro l’alto. Chi vuole bene a Potenza, deve mettersi insieme per far sì che certi problemi -sicurezza in primis- vengano risolti.

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di Walter De Stradis

Si presenta al ristorante rilassato e sorridente. Per sua natura, dice, non ama fare polemiche coi giornali, né tantomeno querelarli (fossero tutti come lui): il cinquantatreenne Donato Ramunno, originario di Melfi, afferma di essere molto sereno e sicuro del lavoro svolto finora, da luglio 2022, in un ruolo comunque “scottante” (nella terra del petrolio), come quello di direttore generale dell’ARPA, l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Basilicata.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Credo che ognuno di noi abbia uno scopo nella vita. Io ho avuto la fortuna di aver avuto dei genitori che mi hanno permesso di studiare, non senza qualche sacrificio, poiché provengo da una famiglia normale. Mio padre era un dipendente del Consorzio agrario di Basilicata e mi ha dato la possibilità di laurearmi, dopodiché ho esercitato per tanti anni la libera professione di geologo. Credo dunque che il senso che ho voluto dare alla mia vita si sostanzia in un attivismo, dapprima pubblico, e adesso con questo prestigioso ruolo di direttore generale di Arpa, avendone i requisiti.

d - Lei ha anticipato un po’ la mia domanda. Ogni qual volta si profila all’orizzonte una nomina come questa, per sua natura, politica…

r - ANCHE politica.

d - …anche politica. Tuttavia ne derivano sempre tutta una serie di polemiche del tipo: “avrà le competenze e i titoli per ricoprirla?”. Anche nel suo caso non sono mancate.

r - Per ricoprire il ruolo di direttore generale di Arpa bisogna avere dei requisiti specifici, dei titoli che hanno attinenza con l’ambiente e un’esperienza certificata maturata proprio in ambito ambientale.

d - E lei ce l’ha?

r - Eh, beh, credo che un geologo, laureato in Scienze Naturali…

d - E quindi in ambito petrolio, per esempio…

r - Io mi sono laureato presso l’Università degli studi della Basilicata, pertanto la mia palestra formativa è stata proprio la Val d’Agri, conducendo lì numerosi studi geofisici e geologico-strutturali. All’epoca le compagnie petrolifere conducevano, parallelamente alle nostre ricerche, i loro studi di prospezione. Conosco in maniera abbastanza approfondita la Val D’Agri, la storia dell’industria petrolifera della nostra Regione e tutte le problematiche connesse alle attività estrattive.

d - Da giovane studente a direttore dell’Ente che si occupa del monitoraggio della Val D’Agri, quanto è preoccupato per la situazione ambientale? O non è preoccupato per niente?

r - Non si tratta di questo. Si tratta di svolgere il proprio ruolo con grande attenzione e rigore. Noi come Arpa siamo deputati al controllo di tutte le matrici ambientali: aria, acqua, suolo e sottosuolo, oltre a effettuare i controlli sulle emissioni elettromagnetiche e sul rumore, e a essere il centro di riferimento regionale per il controllo sulle emissioni legate alla radioattività e all’amianto. Svolgiamo questo compito, e parlo al plurale, perché con me lavorano eccellenti professionisti dotati di un grande rigore prima di tutto morale, poi professionale. Le matrici ambientali e l’ecosistema della Val D’Agri, ad esempio, devono essere controllati con scrupolo. Ed è quello che noi facciamo quotidianamente.

d - Rigiro la domanda. I cittadini si interrogano se le estrazioni possano avere degli effetti sulla loro salute. Si sono spesi fiumi di inchiostro in tal senso. Cosa dire, dunque, al residente preoccupato?

r - In Val D’Agri conduciamo un controllo meticoloso dell’ecosistema. Riavvolgo anch’io il nastro: la preoccupazione dei cittadini è legata al fatto che non tutti sono informati a trecentosessanta gradi. Sul territorio ci sono diverse centraline di aria che restituiscono i dati in tempo reale.

d - E cosa ci dicono?

r - Ci consegnano una qualità della medesima aria che respiriamo, che non desta e non dovrebbe destare alcuna preoccupazione.

d - “Non dovrebbe”?

r - Al momento non c’è stata alcuna problematica legata alle emissioni. Certo, si sono verificati in passato dei picchi di emissione legati a particolari circostanze, ma in generale in questi due anni da direttore generale di Arpa, la qualità dell’aria in Val D’Agri e nel resto della regione è eccellente. Così come per ciò che concerne la matrice acqua; noi effettuiamo dei controlli su tutti i corpi idrici. Nel Pertusillo, ad esempio, l’Arpa effettua prelievi in diversi punti del lago con cadenza mensile. La legge ci dice che dovremmo effettuare otto controlli l’anno, mentre noi restituiamo e certifichiamo la qualità del lago ogni mese. In merito alle colorazioni anomale registrate nel tempo -che delle preoccupazioni le destano nelle popolazioni locali- chiarisco che le stesse devono attribuirsi alla proliferazione di un’alga, che poi si sviluppa in una fioritura anomala che conferisce all’acqua una tonalità più scura, quasi rossastra.

d - Il sindaco di Spinoso ha detto che il Pertusillo è un po’ il “fegato” di tutta la zona...

r - È il recettore del fiume Agri e di tante altre piccole linee di impluvio che arricchiscono il lago di elementi nutritivi di cui si cibano queste stesse alghe, che poi proliferano. Le acque del Pertusillo non le beviamo certo così come si trovano nell’invaso, ma subiscono dei processi di potabilizzazione sia da parte dell’Acquedotto lucano sia da parte di quello pugliese.

d - I cittadini, dunque, possono stare tranquilli?

r - Io non sono un “tuttappostista”, ma dico che la situazione è oggetto di continuo e sistematico monitoraggio. Durante la fioritura algale anomala effettuiamo ulteriori controlli, onde dovessero svilupparsi delle alghe tossiche che per ora, tuttavia, non ci sono mai state. Però incrociamo le dita, bisogna tenere la situazione sotto controllo.

d - È giusto fare un tavolo –come richiesto- con sindaci, cittadini della zona e rappresentanti della Regione Basilicata?

r - Io non mi sono mai sottratto all’incontro con sindaci, cittadini o associazioni. Qualora volessero avere un incontro con me, sono disponibile a farlo. L’Arpa è una casa di cristallo e i suoi dati sono pubblici. Sul portale istituzionale www.arpab.it, che tra l’altro è stato rinnovato di recente, in home page ci sono dei puntini cliccabili (che rappresentano le varie centraline) dedicati al monitoraggio, che restituiscono al cittadino in tempo reale i dati dell’acqua e, soprattutto, dell’aria, grazie appunto alle centraline installate su tutto il territorio.

d - Alla luce delle polemiche pregresse, secondo lei c’è stato una sorta di allarmismo su acqua e petrolio?

r - Non parlerei di allarmismo, semplicemente credo che in passato non ci sia stata una comunicazione adeguata, cosa che io sto provando a fare nel mio piccolo grazie alle testate giornalistiche locali e ai social network, rispetto ai dati e ai campionamenti che vengono effettuati durante tutto l’anno.

d - Cos’è secondo lei che il Lucano non ha ben compreso?

r -...Che le risorse ambientali rappresentano una ricchezza per tutti noi e che, in quanto tali, devono essere sfruttate con rispetto. L’ambiente stesso, ad esempio i nostri boschi, è una ricchezza inestimabile che dobbiamo cercare di preservare, conservare e tramandare alle nostre generazioni. Bisogna fondare dei pilastri sulle tematiche ambientali per dar vita poi ad una economia virtuosa. Ma chi vuole venire in Basilicata a fare impresa, deve venirci…

d - …non da turista.

r - Esatto, nel rispetto del nostro ambiente. E noi lo accoglieremo a braccia aperte.

d - L’organismo Arpa è in salute? I laboratori sono accreditati? Il personale è sufficiente?

r - Ho trovato un ente che aveva bisogno di elementi essenziali, come un regolamento organizzativo; abbiamo poi redatto un piano di fabbisogno del personale (che non veniva fatto da anni) e che adesso viene aggiornato annualmente. Soprattutto abbiamo implementato la nostra platea di personale, dapprima prorogando i contratti ai precari, poi stabilizzandoli definitivamente con contratti a tempo indeterminato. Parliamo di circa quaranta unità: eccellenti professionisti come chimici e geologi che si sono formati nella nostra agenzia. Abbiamo inoltre concluso da poco una procedura concorsuale, ferma da tempo, per funzionari di categoria C, che per ora abbiamo contrattualizzato per diciotto mesi, ma spero che anche per loro –specie in vista dell’insediamento della nuova giunta regionale- si possa tracciare il medesimo percorso del quale le ho parlato poc’anzi. Però è un discorso, questo, ancora da pianificare: non sono abituato a fare debiti con la bocca. Devo dire, tuttavia, che Arpa Basilicata avrebbe bisogno di ulteriori risorse umane, poiché effettuiamo controlli su un territorio molto vasto.

d - Di quante risorse avrebbe bisogno?

r - Direi duecentocinquanta unità per raggiungere l’optimum, ma sarei felicissimo anche con duecento.

d - I laboratori?

r - Siamo dislocati su quattro sedi: Potenza, Matera, Metaponto e Viggiano. A Potenza e Matera abbiamo i laboratori di chimica, microbiologia, biotecnologia, chimica isotopica ed è lì, insieme a Metaponto, che è il nostro centro di ricerca, che c’è il nostro core business. Metaponto è stata assorbita in Arpa da oltre dieci anni. Per il momento i nostri laboratori hanno una certificazione di qualità e stiamo per ultimare il percorso di accreditamento, ma si tratta anche in questo caso di un iter particolarmente articolato, poiché si sono resi necessari dei lavori di ristrutturazione dei medesimi laboratori, ultimati da qualche mese nella sede di Potenza. Dopo di che possiamo procedere.

d - Il film che la rappresenta?

r - “Le ali della libertà”.

d - Il libro?

r - “Paula” di Isabel Allende.

d - La canzone?

r - “Notte di note, note di notte” di Claudio Baglioni.

d - Se tra cent’anni dovessero scoprire una targa a suo nome, cosa vorrebbe ci fosse scritto?

r - Spero di aver fatto il mio dovere, mettendoci tutto me stesso.

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di seguito il testo

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“Gentili candidate e candidati,

Vi siete messi in gioco nelle prossime elezioni comunali, per dare il vostro contributo nell'amministrazione della cosa pubblica. Nella sfida importante che attende, vi chiedo di avere a cuore i temi della parità di genere e delle pari opportunità.

Non sono argomenti "da donne" o "per le donne", ma sono obiettivi che coinvolgono tutta la società. Come emerge dal Rapporto sulla convalida delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri (redatto dalla Consigliera Nazionale di Parità e dall'Ispettorato Nazionale del Lavoro) e dal rapporto “Le Equilibriste, la maternità in Italia nel 2024” di Save The Children “oltre alla ridotta partecipazione delle donne al mercato del lavoro formale, una lavoratrice su cinque esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre”. Le motivazioni sono diverse, dalla difficoltà di conciliare i tempi della famiglia con quelli del lavoro, alle considerazioni economiche e alle difficoltà ad accedere ai servizi educativi per la prima infanzia. La situazione è peggiore nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese.

E’ dimostrato, invece, che quando si includono le donne nel percorso lavorativo, si attua equità sociale, si sviluppa l'economia e si contribuisce alla formazione del PIL.

Care Candidate e cari Candidati, inserite nei programmi che sosterrete le mamme lavoratrici nell'arduo compito di conciliare i carichi di cura con quelli del lavoro, anche con asili nido o altre misure di welfare.

Prevedete, se vi è possibile, l'attivazione di sportelli informativi per diffondere la conoscenza dei diritti delle donne e delle famiglie, così da favorire inclusione e pari opportunità, così da mettere in atto un circolo virtuoso volto a contrastare le piccole grandi discriminazioni che quotidianamente vengono messe in atto, specie in ambito lavorativo.

Il tema della parità di genere e delle discriminazioni sul posto di lavoro è quanto mai attuale e stringente, come ci ricordano la CEDU e anche il numero corposo dei casi trattati dal mio Ufficio (fino al 2023 vi sono stati 240 accessi per servizio di consulenze e 56 casi di discriminazione sul posto di lavoro trattati, anche in ambito giudiziario, tra cui molestie sessuali).

I dati, preziosi per i decisori politici, devono farci capire che è arrivato il momento di non considerare secondario il tema della parità di genere, necessaria per migliorare la società in cui viviamo.

Per questo rinnovo la richiesta alle candidate e ai candidati di impegnarsi attivamente per le donne e le pari opportunità, dedicando a loro parte del proprio programma elettorale.

Un forte in bocca al lupo

La Consigliera regionale di Parità della Basilicata

Ivana Pipponzi”



 

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di Walter De Stradis

C

ent’anni vissuti interamente nel suo paese, Tito (Pz), la maggior parte dei quali indossando una tonaca da prete. Don Nicola Laurenzana, che martedì quattordici maggio festeggerà il ragguardevole genetliaco, da diversi anni non è più il parroco del Convento del paese, ma -lucidissimo e molto presente a sé stesso- puntualmente celebra la messa in casa sua. Da solo, in una stanzetta adibita allo scopo, prega per il suoi fedeli di oggi e di ieri. E non appaia fuori luogo il paragone -che subito ci è accorso alla mente, nell’assistere a quella particolare liturgia- col santone indiano che medita in solitaria per il bene del mondo intero, al chiuso del proprio eremo.

Don Nicola -che nel corso della conversazione più volte si avvarrà del plurale maiestatis, come usava un tempo- lo abbiamo incontrato in casa sua, grazie ai buoni auspici di un suo vecchio chierichetto, Gianfranco D’Eboli (che ancora ricorda, con nostalgico affetto, gli scappellotti del suo vecchio parroco).

«Nel momento in cui entrai in collegio -racconta don Nicola- non pensavo di arrivare sino alla fine. La vocazione infatti si acquista una volta dentro, durante gli anni della formazione, maturando il proprio giudizio e meditando sul proprio futuro. Man mano, la vocazione si scopre, si accetta e si vive preparandocisi».

d - Ritiene che un prete di oggi abbia un ruolo diverso da quello di un sacerdote al tempo dei suoi esordi?

r - Beh, certamente, oggi il discorso è un po’ diverso, già a livello di vocazione: si tratta quasi sempre di vocazioni adulte. Ma anche il grado di formazione spirituale al sacerdozio è diverso. Motivi per cui, ben si percepisce che quello moderno è un prete un po’ diverso, come mentalità, linguaggio e comportamento. Come “uomo moderno”, insomma. Noi siamo stati abituati a una disciplina un po’ più rigorosa, un po’ più coerente, un po’ più consona a ciò che dovrebbe essere il prete di ogni tempo e di ogni luogo, ecco.

d - Però era anche diverso il ruolo che un sacerdote aveva nel paese. Una volta si diceva: c’è il prete, il carabiniere e il medico.

r - No. Io non mi sono trovato in quel periodo, bensì dopo, quando questa mentalità non esisteva più. Io mi sono ritrovato prete responsabile per quello che dovevo essere e per quello che dovevo fare. Certo, con coloro che sono i responsabili della collettività, sindaco, carabiniere etc. c’è sempre un buon rapporto, un connubio di intenti, grazie al quale politica, amministrazione e ministero pastorale sono complementari agli effetti della collettività a cui si appartiene.

d - In questi circa ottant’anni di sacerdozio, come ha visto cambiare il suo “gregge” qui a Tito? E com’è cambiato il paese, di suo, nei decenni?

r - Dei cambiamenti ci sono: un tempo la popolazione era più “religiosa”, ma di una religiosità anche “apparente”, ovvero fatta di tradizione, abitudini, osservanza, obbedienza, l’attenzione. Oggi invece c’è una religiosità diversa: si esprime dentro, ognuno fa per sé, ognuno crede a suo modo. Comunque apprezziamo il passato così com’era, apprezziamo anche il presente nelle sue forme nuove. Sotto il profilo politico e sociale il paese è cambiato, come tutti gli altri. Tito era dedicato all’agricoltura e alla pastorizia, oggi è mutato: la gioventù ha lasciato i campi, studia di più e ambisce a traguardi diversi e migliori. Pertanto non è paragonabile alla gioventù di un tempo che contribuiva più che altro all’economia domestica.

d - Un tempo si emigrava alla volta della Fiat di Torino e simili, oggi -proprio perché, magari, ci sono più laureati- si emigra comunque per la carenza di opportunità?

r - Quella di ieri era un’emigrazione quasi “spontanea”: si andava fuori per provare a cercare un lavoro migliore. Oggi è invece addirittura una necessità: se il giovane non va fuori, lavoro non ne trova, nonostante i suoi studi e una mentalità molto più disposta. Comunque l’emigrazione è sempre esistita nel nostro ambiente.

d - Qui a Tito, per i giovani, lei ha fatto tante cose, ma anche per gli anziani...

r -...a quei tempi c’era l’Azione Cattolica che raccoglieva i piccoli, e i meno piccoli. Per gli operai c’erano le associazioni lavorative, c’erano le Acli, con le quali ho lavorato per venticinque anni. Poi venne fuori il bisogno di alcuni mendicanti -perché ne abbiamo, in paese- li raccogliemmo (ricordo che all’inizio erano in cinque), assicurando loro vitto, servizi igienici, del personale minimo. A quei tempi anche i minori erano in balia di loro stessi, perché i genitori di solito emigravano e le condizioni economiche erano quelle che erano. Motivo per cui ebbi l’idea di istituite una piccola casa di accoglienza, intitolata al santo del posto (San Laviero Martire – ndr), così venerato, ma anche così bestemmiato. I ragazzi venivano da tutti i paesi della regione e si trattenevano a seconda dell’età, dei bisogni delle famiglie o del livello d’istruzione. Qualcuno è rimasto qui a Tito anche per dieci/dodici anni, dalla scuola materna a quella media inferiore (alcuni hanno proseguito anche nelle scuole superiori) non pochi di loro ritornano in paese con grande riconoscenza.

d - Lei a giorni compirà cent’anni, qual è il segreto per arrivarci vispi e in salute come lei?

r - Arrivare a cent’anni non è un merito.

d - Beh, dipende.

r - E’ una condizione. Io seguo le regole generali: l’attenzione, l’alimentazione, la prudenza nel vivere; perché non bisogna soltanto vivere, ma anche saper vivere. Il dono della vita va curato, va nutrito, alimentato in tante maniere, e va anche difeso dai pericoli, di tante specie. Oggi, credo, la vita si è allungata, per cui i centenari sono tanti e il loro numero crescerà in futuro. Oggi in generale c’è più attenzione alla vita.

d - Il 14 maggio -e ci sono già i manifesti- la comunità titese la festeggerà, ma lei quale “regalo” vorrebbe, per sé, per i suoi compaesani...

r - Un regalo dovrebbe essere la preghiera di ringraziamento, sia da parte mia sia degli altri. Se i miei amici saranno con me il 14, ringrazieranno il Signore per il dono della vita. Regali di ogni specie non ne vorrei perché, essendo al traguardo, non avrei di che usufruirne.

d - Cos’è che ancora oggi la fa soffrire?

r - No, no, sono tranquillo e sereno di aver fatto ciò che ho fatto.

d - Ma quando guarda dalla sua finestra, o magari esce in paese, non c’è niente che la fa arrabbiare?

r - No, no. So che la popolazione mi vuol bene, anche perché sono stato sempre qui. Pensi un po’ che sono stato settantasette anni sacerdote a Tito, come vicario cooperatore (con il primo parroco), poi come parroco, e poi ancora come aiutante dei parroci che mi sono succeduti.

d - E oggi celebra messa a casa sua.

r - Sì.

d - E ci viene qualcuno?

r - Il mio parroco desidera che non venga nessuno. Non solo a causa della mancanza di spazio, ma anche perché non avrebbe la possibilità di frequentare quella poca gente che magari verrebbe. Tra l’altro, la mia non è una chiesetta, ma una semplice stanza adibita alla celebrazione della messa, e vi entrerebbero massimo tre/quattro persone.

d - E qual è il senso di fare una messa da solo?

r - Una messa da solo è adorazione, ringraziamento, domanda di perdono (anche per il popolo) e domanda di grazia, di qualunque grazia.

d - In Basilicata recentemente si è votato per la Regione, tra poco qui a Tito (e altrove) si voterà per il sindaco e la giunta comunale: lei quale messaggio si sente di rivolgere ai nostri rappresentanti politici? Preghiera, ringraziamento o che altro?

r - L’attuale sindaco (Scavone – ndr) mi è tanto amico: lo ricordo da piccolissimo, quando giocava al pallone con i ragazzi del collegio. Poi è diventato grande, ha studiato...ed è un ottimo sindaco, un ottimo amico, col quale collaboriamo con tutto il cuore. Viene a trovarmi, mi ascolta e proponiamo insieme alcune iniziative. Per quanto riguarda la Regione o la Provincia, sono organi necessari, con i quali non abbiamo nessuna ostilità, difficoltà o problema.

 

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 DI WALTER DE STRADIS

 

Fra le diverse cose, il noto architetto potentino Gianluigi Barbato Padovani ha anche progettato gli interni del ristorante in cui di solito si consumano, oltre ai pasti, anche le nostre interviste “a pranzo” («con Domenico e Francesco, nel lontano 2005, pensammo subito a un locale contemporaneo, che potesse durare nel tempo»).

Dotato di aplomb all’inglese e di piacevole erre “arrotondata”, Barbato Padovani è quel che si dice una “mente”, da cui sono scaturite (e come si leggerà, scaturiscono tuttora) diverse idee e proposte di progettualità interessanti per la città capoluogo di regione...per salvarlo dalla linea “piatta” a cui sembrerebbe man mano abbandonarsi.

d - Al di là di ciò che è scritto nelle carte della professione, cos’è per lei un architetto? Esiste una “mission”?

r - All’inizio pensavo che l’architettura fosse legata solo alla realizzazione degli spazi. Nel tempo, con l’esperienza, ho capito che prima di tutto, forse, è la progettazione dei comportamenti.

d - Degli spazi con dei “contenuti”, quindi.

r - Sì, perché noi progettiamo per l’Uomo; di conseguenza, in qualche modo, è lo Spazio che deve relazionarsi con l’Individuo. E poiché questi si muove liberamente in quello Spazio, noi architetti a quel Movimento dobbiamo dare un significato, ovvero delle opportunità.

d - Proprio l’altro giorno leggevo di un vecchio studio americano, dal quale si evinceva che nei quartieri meno degradati esteticamente, e cioè più “belli”, si registra minore delinquenza.

r - E’ assolutamente vero. La funzione del Bello, dell’Architettura, fa sì che gli spazi, con la loro qualità estetica, inducano al rispetto di quei luoghi stessi.

d - E veniamo alle dolenti, o magari piacenti, note della città Capoluogo (ci dirà lei). Spesso si leggono scritti, se non addirittura classifiche, sulla “bruttezza”, vera o presunta, della nostra Città. Ma poi viene un regista, Simone Aleandri, a girarci un film con Ambra Angiolini, e a noi di Controsenso dice che Potenza lo affascina perchè, con i suoi palazzoni, sembra una città “noir”.

r - Potenza è una città che ha un suo “nucleo”, molto importante e direi anche molto apprezzato. Quando invito gente da fuori, questi ospiti guardano al centro storico come a un elemento di grande gratificazione. E’ vero, forse nel tempo la periferia è stata costruita con caratteristiche che non hanno rafforzato il centro storico, creando una dicotomia tra le due aree della città; insomma, non c’è stato un “continuum”, ma quasi una rivalità. Tant’è vero che, negli ultimi decenni, abbiamo notato che il centro storico è stato abbandonato. E quindi, ciò che normalmente accade in tante altre città, anche italiane, e cioè un nucleo forte che traina la crescita di un’intera città, non si è verificato. Attenzione, ciò non significa che la periferia sia per forza dequalificante (abbiamo infatti la fortuna di essere una città abbastanza tranquilla, che gratifica i suoi abitanti, tendenzialmente qualificativi), ma ugualmente ritengo che qualche sforzo in più si sarebbe dovuto fare, nella costruzione dei cosiddetti nuovi quartieri.

d - Si è badato solo a riempire degli spazi e non alla progettazione dei comportamenti, come dicevamo prima?

r - Parliamo di un maggiore senso sociale: bisogna guardare a chi abita la città, ma anche creare delle opportunità. Il centro storico, in qualche modo, è stato depauperato del suo ruolo come punto di aggregazione. Quando sono in Centro, io stesso non ritrovo quella frequentazione che ricordavo da bambino.

d - Ci ritrova, però, i “pali” dell'archistar Gae Aulenti in piazza Prefettura, che hanno suscitato tante polemiche.

r - Beh...

d -...però, anche in questo caso, viene a Potenza una scrittrice di fuori, autrice di una biografia sulla Aulenti (Annarita Briganti – ndr), e dice che quei pali sono una ricchezza, per la città.

r - C’è però sempre un problema, legato ai progetti che vengono calati dall’alto. Un progetto, di per sé, può anche essere interessante e valido, ma quando non è “digerito”, condiviso, con la popolazione, può creare questo tipo di controversie. E forse proprio questo è mancato al progetto di Piazza Prefettura. Oltretutto si è trattato di un “restyling”, non di un intervento sostanziale, utile a far sì che quel luogo diventasse anche funzionale al ritorno della gente in via Pretoria. E’ stata fatta una pavimentazione, messa una nuova illuminazione, ma probabilmente non si sono fatti degli interventi come quello proposto, anni addietro, di creare un parcheggio multi-piano, con accesso da XVIII Agosto. Avrebbe portato, nel cuore di Potenza, i potentini (e non solo, probabilmente).

d - Dunque, le occasioni CI SONO state.

r - Io penso proprio di sì. Credo anche che alcuni interventi fatti non siano stati gestiti in maniera adeguata.

d - Eppure si sono succedute varie amministrazioni, e di diverso colore, anche. Ma il “problema Centro” è sempre lì.

r - E’ visibile a tutti: oggi il centro storico arranca. Non è solamente un problema di architettura, ma di utilizzo degli spazi, di natura commerciale; insomma, un problema che deve guardare agli spazi anche in chiave merceologica. Probabilmente va fatto un progetto più ampio. Io stesso ho fatto degli studi sulla problematica del centro storico; è stata anche presentata, a un’amministrazione, una relazione che guardava a un particolare utilizzo della parte vecchia della città. Mi spiego: guardando al mercato dei matrimoni, scopriamo che muove risorse enormi. E nel Meridione non esiste un centro storico, caratterizzato, votato a questo. Eppure parliamo di un mondo fatto di cibo, di viaggi, di artisti, di fotografi, di finanza...

d - Un vero e proprio indotto.

r - Con centinaia di milioni che vengono spesi soltanto nell’ambito di tre regioni: Campania, Basilicata e Puglia.

d - Quindi lei dice che il nostro centro storico si prestava particolarmente a questa vocazione?

r - Assolutamente sì. Sia perché è uno spazio pedonale, sia perché ha tutta una serie di contenitori che potevano essere utilizzati.  

d - Alcuni dei suoi vicoli sono in effetti romantici.

r - Certo. L’idea è quella di un luogo attrattivo, ove le persone interessate trovano lo stilista, il sarto, l’artigiano delle scarpe, quello delle borse, il “food” ove scegliere, gli spazi per le manifestazioni legate ai matrimoni.

d - Senta, immaginiamo che un domani a Potenza venga istituito un Assessorato al “Bello”...e che venga dato a lei l’incarico.

r - …la prima pratica sarebbe sempre legata al centro storico. I luoghi, poiché vivono sulla storia delle persone, necessitano di partire dalla loro storia, E il Centro è la storia di una città. Partirei quindi da una riqualificazione a 360 gradi di quell’area, per poi allargarmi a tutta la città. Guardi, anche ciò che è accaduto col “110”, è stata un’opportunità mancata, che permetteva di ridisegnare gli edifici, con fondi dello Stato. Ciò poteva significare rendere i nostri edifici, perlomeno quelli che di bello hanno poco, molto più interessanti.

d - A proposito di film “possibili” da girare a Potenza, lei che genere di lungometraggio farebbe e dove?

r - Potenza ha una serie di prospettive interessanti. Come dicevo prima, l’importante è osare. Io guarderei, pertanto, alla città nella sua interezza; anche alcune aree che noi magari riteniamo più deteriorate, possono in qualche modo partecipare a questa possibilità. Mi sovviene il “Trattato sul Funambolismo”, di Philippe Petit, in cui si spiega che l’essenza del funambolo, che può muoversi tra due guglie, due spazi dimenticati, è quella della città, dell’Uomo. Ripeto, partendo dall’Uomo, puntando tutto sull’Uomo, le città possono vivere ed essere riqualificate.

d - Potenza deve essere più funambolica.

Bisogna osare di più.  

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A maggio saranno 25 anni a servizio della Chiesa. Questa settimana è Don Donato Lauriaa parlare, presentandoci laParrocchia "Maria SS. Immacolata" di Rione Cocuzzo, più comunemente conosciuto come Serpentone.

d - È un rione molto popoloso. Come è composta la comunità?

r - La realtà di Rione Cocuzzo, meglio ancora del territorio della Parrocchia Maria SS. Immacolata è costituita da una popolazione di oltre diecimila anime.Complessa e variegata è la composizione degli abitanti provenienti da varierealtà socioculturali, con annesso un territorio rurale che comprende attualmente lecontrade Gallitelloe Valle Paradiso.La gran parte degli abitanti risiede in quello che è comunemente definito “il Serpentone”, in massima parte famiglie monoreddito, altre vicinissime alla soglia di povertà, altre ancora con un alto indice di povertà, moltissime sono attualmente le famiglie formate essenzialmente da pensionati soli o con figli a carico senza lavoro o con lavori a tempo determinato, saltuari o addirittura ”a nero”.A fare da contrasto a questa realtà sono le cooperative che invece sono abitate da nuclei familiari più benestanti, ma nessuna, ma mio avviso, può definirsi “borghese” o “nobile” redditualmente.Il resto del quartiere è formato da famiglie anche giovani, la maggior parte di esse, però, con a carico figli unici.

d - Si è detto più volte in passato essere un rione “difficile”, è vero? Lo è stato/lo è ancora oggi?

r - Il Quartiere, fin dalla sua nascita, e ancora negli anni 80 e 90, per le sue grandi dimensioni e per le difficili condizioni di vita dei suoi abitanti, era definito il Bronx, un “quartieresimbolo” del degrado delle periferie della città.Le prime famigliearrivate nel rione ricordano di essersi trasferiti dal centro storico e dalla parte alta di Potenza, o dai paesini montuosi limitrofi in un quartiere ancora in via di costruzione,con un sistema fognario assente e una parziale e inadeguata illuminazione pubblica e dei bus e di altri servizi pubblici neanche l’ombra. Questo popolo di Rione Cocuzzo ha sempre lottato per migliorare le condizioni di vita del quartiere e uscire dall’isolamento e ha fatto sentire la sua voce verso le autorità amministrative e politiche dalle quali il più delle volte si è sentito abbandonato.Oggi tante cose sono notevolmente cambiate, i suoi abitanti, che hanno sviluppato un certo senso di orgogliosa appartenenza, sono attori fondamentali di un processo di rinnovamento e riqualificazione: hanno imparato a volergli bene e a prendersene cura, anche perché, per molto tempo, non c’è stato nessuno che lo facesse al posto loro.Sono presenti sul territorio le più importanti agenzie di servizi come la scuola, l’ufficio postale, la farmacia, il supermercato, molte attività commerciali e professionali e, ovviamente la Parrocchia, che in questi ultimi vent’anni ha avuto un ruolo dominante per il cambiamento culturale e sociale del Quartiere, compiendo un grande lavoro di aggregazione, soprattutto tra i giovani e diventando un punto di riferimento per tutte le famiglie del rione e per la città.L’attività parrocchiale al di là del suo specifico servizio ecclesiale e sacramentale, si concentra sulla cura del rione e sull’organizzazione di eventi culturali e religiosi aggregativi.Vorrei sottolineare che Parrocchia è innanzitutto chiamata ad educare, ma la grande tentazione di chi educa è l’ideale di perfezione che troppo spesso abbiamo in testa. Vorremmo studenti impegnati e diligenti, classi silenziose e partecipi, scuole pulite e ordinate, adulti dialoganti e disponibili. Ma le cose non vanno mai così, e allora ci lamentiamo.Noi pensiamo che la comunità è quel luogo dove tutto deve essere bello, dove tutto deve essere perfetto, senza macchia, che deve rispondere a tutti i nostri perché, ai nostri dubbi, dove niente e nessuno può sbagliare.La comunità è fragile, perché formata da uomini fragili.

d - La parrocchia che attività propone oltre a quelle strettamente legate alla religione? I cittadini partecipano alle attività?

r - Le attività sono molteplici e variegate e la gestione delle stesse è affidata agli animatori dell’Oratorio e a collaboratori adulti opportunamente preparati e responsabili.Laboratorio di Teatro, Coro ragazzi e adulti, attività sportive, laboratori di cucina e pasticceria, laboratori di taglio e cucito, centro estivo, gite e pellegrinaggi, Incontri culturali, Doposcuola con merenda. Le attività sono sempre accolte con grande favore soprattutto dalle famiglie dei bambini e ragazzi poiché vedono in esse una opportunità di crescita umana per i loro figli e di relazione e incontro per loro adulti. Se però facciamo un confronto con il passato, dobbiamo constatare una minore partecipazione numerica dovuta alle molteplici altre proposte che la città offre in ambiti diversi e, che prima, erano in un certo senso offerte solo dalle parrocchie.

d - Ci sono associazioni che gravitano intorno alla Parrocchia?

r - Stiamo cercando di progettare, di lavorare insieme alle altre associazioni del Quartiere come Auser, Gommalacca, Associazione Cocuzzo…anche perché solo dalla reciproca conoscenza e dalla stima gli uni per gli altri possono nascere collaborazione e sintonia.

vSi parla spesso di giovani che non frequentano le celebrazioni e le attività della chiesa, come è la situazione?

r - Come Parrocchia abbiamo concluso a gennaio una indagine sui “GIOVANI e la FEDE in UNA SOCIETÀ PLURICULTURALE E MULTIRELIGIOSA” su un campione di più di 1000 giovani dai 14 ai 28 anni.Avremo modo nei prossimi mesi di fare una più attenta riflessione su questa indagine. Per il momento posso dire che i giovani non si pongono “contro”, ma stanno imparando a vivere “senza” il Dio presentato dal Vangelo e “senza” la Chiesa.Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca in cui la fede è ormai marginale e i cristiani sono una minoranza.

d - Caritas parrocchiale - Quante e che tipologia di famiglieassistete?

r - La povertà continua a mordere, come confermano i recenti dati Istat secondo i quali "la povertà conferma sostanzialmente i massimi storici toccati nel 2020, anno d'inizio della pandemia". Una condizione difficile, che incide sulla vita dicentinaia di famiglie del quartiere e della città sempre più in affanno nell’arrivare a fine del mese e a provvedere, in maniera autosufficiente, alle cosiddette spese fissequelle che in famiglia non mancano proprio mai. Ed è su questo fronte che l’azione della Caritas parrocchiale e si è fatta da qualche anno più intesa e concreta. Da una parte con la distribuzione di pacchi alimentari, dall’altra sostenendo in maniera totale o parziale il pagamento diretto di bollette, affitti e, a volte, rate di mutuo.Nel nostro territorio parrocchiale non ci sono i poveri di strada, quelli cioè che siamo abituati a incontrare davanti alle chiese, nelle zone centrali delle grandi città o in quelle ad alta frequentazione turistica. Qui i poveri si mimetizzano nel tessuto sociale, gente apparentemente normale ma tutti con un equilibrio economico molto fragile e in molti casi con entrate legate alla giornata.

d - Intervenite anche in qualche altro modo?

r - Certo, non c’è solo l’aiuto materiale, è indispensabile puntare anche sull’aspetto educativo. Spesso ho a che fare con persone che, come diciamo da queste parti “ci provano”! Gente cioè che bussa alle porte della chiesa con un approccio da bancomat provando a mettere in piedi l’ennesimo tentativo di ottenere qualcosa. Persone che in realtà non vivono un bisogno impellente, cui è giunta voce che “la parrocchia aiuta” e che quindi provano a vedere se è possibile rimediare qualcosa. Ma la cosa che più mi colpisce è che alcuni di quelli che aiutiamo, potrebbero tranquillamente farcela da soli e non lo fanno, o perché non hanno voglia oppure perché spendono il denaro per futili motivi.Altra povertà è quella della solitudine degli anziani, molti dei quali vivono lontano dai propri figli, emigrati per necessità in altre città del nord o, addirittura, in altre nazioni. Il nostro intento è quello di creare quei legami che in qualche misura in un grande quartiere come questo vengono meno. Su diecimila abitanti, numerosi sono gli ultraottantenni. Per questa fascia d’età dovremmo impegnarci molto di più a fare rete con altre associazioni presenti sul territorio e che da anni offrono loro sostegno e iniziative formative, culturali e ricreative.

d - Vita nel quartiere - Quali sono i principali problemi che icittadini lamentano?

Adesso passano tantissime macchine e, in alcune ore della giornata, sembra un circuito di corsa per le auto. Corrono vicino alle palazzine, rischiando di investire qualcuno. In realtà̀ è già̀ successo più volte. Sarebbero auspicabili dei rallentatori e una maggiore presenza delle forze di polizia nelle ore di punta. Occorrerebbe illuminare maggiormente alcune zone del quartiere, così da renderle più vivibili e sicure, riparare le strade periferiche del quartiere e avere più cura del verde pubblico.

Ovviamente in ogni cosa ci si aspetta dalla popolazione un maggior senso civico.

d - Nei prossimi mesi i potentini saranno chiamati a scegliere il loro primo cittadino.Se lei fosse sindaco…

r - Nella nostra città ci sarebbero davvero tantissime cose da fare e francamente io non riesco ad individuarne la priorità, né a riassumere in tre punti assegnando un ordine d’importanza. Sono forse le scuole meno prioritarie degli asili nido? Sono forse la viabilità o i trasporti d’importanza secondaria rispetto alla esigenza di una sanità che possa mettere i nostri eccellenti professionisti nelle condizioni di declinare le proprie capacità in una struttura che lo consenta? Non sarebbe forse prioritario lavorare a un progetto che possa guardare oltre il proprio naso, sulla gestione degli spazi pubblici della nostra città?Ho sempre creduto che la nostra città viva da decenni una crisi di sistema orizzontale e verticale. I cittadini si avviluppano sempre di più dentro una critica sterile ed improduttiva, volta al lamento incline al sentito dire e priva di quel senso civico, di quella passione che muove le comunità che hanno la consapevolezza di esserlo. L’uso che si fa dei social certo poi non aiuta.La cosiddetta “classe dirigente”, quando si muove, lo fa senza mai riuscire a mettere a segno ancheUN SOLOprogetto condividendone i contenuti e il fine, bravi come siamo a dare priorità alle nostre ambizioni personali e politiche ancorché all’interesse collettivo. Potrei solo dirvi che occorrerebbe ricominciare da zero: dall’imparare l’importanza fondamentale nelle nostre vite quotidiane del ruolo delle Istituzioni per saper discernere a chi farle incarnare. Almeno proviamo ad insegnarlo ai nostri figli!

 

 

 

 

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Tra gli Allievi Ufficiali appartenenti al 205° Corso "Fierezza", hanno giurato anche i materani Francesco Armento di Bernalda e Luigi Dimichino di Montescaglioso. Il corso è frequentato da 230 Allievi Ufficiali, dei quali 216 italiani e 14 stranieri, provenienti da undici paesi diversi.
Nel Cortile d'Onore del Palazzo Ducale di Modena, sede dell'Accademia Militare, gli Allievi Ufficiali hanno  giurato in forma solenne, alla presenza del Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Generale di Corpo d'Armata Carmine Masiello, e del Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri, Generale di Corpo d'Armata Teo Luzi.
L'atto solenne, avvenuto al cospetto della Bandiera dell'Istituto e dinanzi al padrino del corso, Tenente Colonnello Gianfranco Paglia, Medaglia d'Oro al Valor Militare, ha suggellato l'ingresso degli Allievi Ufficiali nei ranghi dell'Esercito Italiano e dell'Arma dei Carabinieri e la loro adesione, intima e spirituale agli ideali, tradizioni e valori - cardini dell'etica militare - incastonati nella tradizionale formula del giuramento, pronunciata dal Comandante dell'Accademia Militare, Generale di Divisione Davide Scalabrin.
<<Ho deciso di entrare in Accademia per l’opportunità formativa offerta dall’Esercito dal punto di vista degli studi, dell’educazione fisica e della formazione tecnica militare. Inoltre, la possibilità di sviluppare la capacità di essere leader e imparare a ragionare anche in condizioni di stress>>, ha dichiarato l’allievo lucano Francesco Armento, di Bernalda; << Qui ho la possibilità di conciliare la vita universitaria, l'attività ginnico-sportiva e l'addestramento tecnico-tattico. La volontà di dare un contributo alla comunità del Paese che io amo tramite le competenze apprese e le conoscenze acquisite>>, ha invece affermato Luigi Dimichino di Montescaglioso.
Il Capo di Stato Maggiore della Difesa si è rivolto ai giovani Allievi Ufficiali evidenziando che “Il Capo dello Stato, il Ministro della Difesa, tutte le Istituzioni e tutti i cittadini guardano a noi, ma soprattutto a voi, che siete il futuro come presidio di democrazia, di libertà e quale sicuro punto di riferimento per la sicurezza e la stabilità..”.

Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, rivolgendosi ai futuri Comandanti, ha sottolineato che "giurando fedeltà alla Repubblica Italiana, vi siete assunti la responsabilità di difenderla con la Costituzione e le libere Istituzioni che la incarnano. È un contratto che firmate davanti al Tricolore, è un patto d'onore che vi lega alla Patria”

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di Walter De Stradis

 

 

 

Pochi altri medici lucani possono vantare un “palmares” di incarichi e riconoscenze prestigiose come le sue. Il professor Michele De Bonis, spesso e volentieri titolato come “eccellenza”, nazionale e regionale, originario di Pietragalla (Pz), è primario dell’Unità di Cardiochirurgia delle Terapie Avanzate e di Ricerca presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, professore associato di Chirurgia Cardiaca e già Direttore della Scuola di Specializzazione in Cardiochirurgia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Ricopre ruoli di prestigio a livello europeo ed internazionale e presso l’Unità che dirige esegue oltre 5.500 interventi maggiori di cardiochirurgia, di cui circa 3000 in qualità di primo operatore.

Ciononostante, è in maniera manifesta un uomo di un’affabilità e un’umiltà addirittura spiazzanti, che ogni mese prende il treno per venire a visitare, qui a Potenza, i suoi corregionali bisognosi di cure.

Ah…e ha fatto parte dell’equipe che ha operato un certo Berlusconi.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Pariamo con una domanda che forse è la più importante, fra quelle che mi farà. La mia esistenza la giudico sulla base del dono più grande che ho: la mia Fede. Tutti noi siamo il risultato di UN progetto d’amore e siamo chiamati a corrispondervi. Per caso, l’altro giorno, rispondendo a un messaggio di mia moglie (anche lei cardiochirurgo), ho trovato ciò che aveva scritto sul suo profilo whatsapp, una frase di don Tonino Bello: “La vita ci è donata per conoscere Dio; la morte per incontrarlo e l’Eternità per possederlo”. Credo che possa riassumere una risposta alla sua domanda.

d - Lei è originario di Pietragalla, ma sin da giovanissimo ha lasciato la Basilicata. Si è mai sentito, in qualche modo, un’eccellenza sottratta alla sua regione?

r - Se avessi potuto (o potessi), contribuire di più al bene della mia regione, mi avrebbe riempito di gioia. Il motivo per cui sono andato via –quando avevo 18 anni- è per frequentare l’Università Cattolica del Sacro Cuore, in una facoltà a numero chiuso, in quel momento anche l’unica. Quella era la struttura che in quel momento, a mio giudizio, poteva offrirmi le migliori prospettive. Non credo di essere stato “sottratto”, avendo liberamente scelto di proseguire un percorso che era quello che mi interessava: avere la migliore preparazione possibile, e seguire la mia passione, ovvero la Medicina.

d - A microfoni spenti mi ha detto di essere stato un “biglietto giallo”.

r - Sì. Avendo la mia famiglia un reddito molto modesto, ero un “biglietto giallo”. Ma ricordo con piacere questo colore, perché sono molto riconoscente alla “Cattolica”. Ho potuto frequentare quella Università, a numero chiuso, sostanzialmente in modo gratuito, purché mantenessi un rendimento molto alto (bisognava avere la media, almeno, del 29,5). In virtù di ciò, avevo anche a disposizione un alloggio (in un collegio della “Cattolica”) e un contributo spese per i libri.

d - Lai ha grosse collaborazioni a livello europeo…

r - …ho iniziato abbastanza presto questo tipo di percorso, andando al St. George Hospital di Londra; prima ancora ero stato in Belgio, presso diverse istituzioni. Successivamente, pur avendo superato l’esame (di per sé abbastanza difficile) per esercitare negli Stati Uniti, sono rimasto in Europa, lavorando al San Raffaele. Nel frattempo sono arrivati alcuni altri incarichi, fra i quali, quello di presidente della Task Force sulla Chirurgia Mitralica e Tricuspidalica della European Association for Cardiothoracic Surgery; quello di presidente del Working Group for Cardiovascular Surgery della Società Europea di Cardiologia; di referente per l’Europa dell’American Heart Association (l’associazione americana più grande in ambito di cardiologia). Attualmente sono il Presidente della Mitral Research Network, un’organizzazione di ricerca della Heart Valve Society. Sono stato anche “visting professor”, sia in Inghilterra sia nel centro in cui il professor Barnard fece il primo trapianto di cuore in Sudafrica. Ho poi avuto un ruolo importante nelle liee guida (Società Europea di Cardiologia e Cardiochirurgia) sulle valvulopatie nelle ultime tre edizioni.

d - Lei è dunque un Lucano, un vero luminare, che si è affermato a livello nazionale e internazionale; eppure una volta al mese, o giù di lì, torna qui a Potenza per fare le visite al centro Kos. A occhio e croce, uno come lei non ne avrebbe bisogno.

r - Dipende dal modo col quale si intende questo lavoro. Ha ragione, se guardiamo all’aspetto economico, non ne ho bisogno. L’esigenza è nata però dal fatto che, ormai molti anni fa, ricevevo tantissime richieste di informazioni, contatti etc. Ma questi pazienti non potevo visitarli, e dunque o dovevo invitarli a Milano o dovevo limitarmi a consultare la loro documentazione a distanza. Tutto ciò non mi rendeva sereno, ovviamente, e pertanto questa scelta di venire a Potenza periodicamente, concentrando un certo numero di visite, mi consente di offrire un servizio che posso reputare davvero utile a chi lo desidera.

d - Fra i numerosi premi ricevuti, non manca quello di “Lucano Eccellente”. Qual è stato per lei, se c’è stato, il valore aggiunto nell’essere un Lucano?

r - (Sorride). C’è stato, eccome. La parte lucana che ritrovo dentro di me è soprattutto legata ai valori che ho ricevuto e che –perlomeno alcuni- si ricevono per “osmosi”. Mi riferisco al basso profilo, all’umiltà dei miei genitori e delle persone che mi hanno circondato; le amicizie che ho vissuto; la semplicità dei rapporti; il capire, fin da subito, che le cose bisogna conquistarsele, e che non si vive di rendita, bensì di sacrificio e lavoro. Voglio dire anche altro: la Lucania è Colore, la Lucania è Luce. E’ ciò che faccio notare ai miei figli (che amano tornare); qui il verde è più verde, il blu è più blu. Contavo con mia figlia, l’altro giorno, i paesi del mondo in cui sono stato per lavoro: ventidue. Nelle grandi città i colori sono sempre offuscati. E poi, vogliamo parlare dei sapori? Della genuinità? Della bassa densità della popolazione, anch’essa un valore? Della vita che ha un ritmo diverso? A tutto ciò bisognerebbe associare –e sta succedendo, succederà- tanta, tanta professionalità, servizi, risposte.

d - Ecco, cosa invece NON le piace della Basilicata, quando ci torna?

r - Le dico una cosa, con dispiacere, che qui mi capita da anni: se un paziente ha prenotato una visita, e poi non ci viene, non disdice. Non chiama per disdire. E se lo si chiama, perché non sta venendo, non risponde. E’ il segnale di un fatto: noi tutti dobbiamo fare anche un po’di autocritica, invece di esprimere solo lamentele. Dobbiamo riflettere di più sul nostro senso civico. Al San Raffaele, se un paziente non viene, sistematicamente chiama e disdice, e il suo posto viene preso da un altro.

d - Lei ha fatto parte dell’equipe chirurgica che nel 2016 ha operato Berlusconi, che immagino circondato da tutto un “entoruage”, invasivo o meno. Quando si ha “sotto i ferri” un personaggio del genere, si avverte una certa pressione, rispetto alle situazioni più ordinarie?

r - Se devo dare una risposta sincera, come fatto finora, dico “senz’altro”. La pressione –e anche un po’ di legittima ansia- si avverte, anche per la presenza di telecamere e giornalisti. In sala operatoria però bisogna concentrarsi su quello che si fa, “ricordando” la storia del paziente (che comunque si è incontrato prima). Portiamo in sala operatoria parte della sua famiglia, le preoccupazioni di coloro che stanno con lui, ma in quella sede c’è un “campo” in cui si è molto tecnici e persino “freddi”, per fare le cose per bene. Come per tutti i pazienti, si voleva andasse tutto bene. Ciò è avvenuto, e, sì, abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo.

d - Il libro che la rappresenta?

r - Non so se mi rappresenta, ma il testo che continua a essere sul mio comodino (e così sarà per sempre) è un’opera che in pochi conoscono. E’ un libricino piccolo così, apparteneva a un mio zio sacerdote che è stato missionario per diciotto anni sul Mato Grosso: “L’imitazione di Cristo”. E’ di un anonimo, probabilmente di ambiente monastico. Riempie il cuore di bene. Per lo stesso motivo, continuo a leggere e rileggere un’opera, in dieci volumi (cinquemila pagine), di Maria Valtorta, “L’Evangelo come mi è stato rivelato”.

d - Il film?

r - Ce ne sono tanti. Potrei dirle “La Leggenda del pianista sull’oceano” di Tornatore, “Il pianista” di Polanski, ma anche “Interstellar” di Nolan. Cerco quei film che mi lasciano dentro delle emozioni.

d - La canzone?

r - Direi “Making movies” dei Dire Straits, così come “Tunnel of Love”. Ricordo benissimo quando uscì il loro album “Love over Gold”: avevo vinto una borsa di studio per andare negli Usa, bandita dalla Regione Basilicata (“Intercultura”). Il disco fu la colonna sonora di quei sei mesi americani.

d - Mettiamo che fra cent’anni, qui in Basilicata, scoprono una targa a suo nome: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r - Credo sia una fase di San Paolo: “Ha concluso la sua battaglia, ha conservato la Fede”.

 

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di Walter De Stradis

 

 

A Potenza, lui, Michele “Lello” De Novellis, settantaduenne con voce pacata e leggera inflessione partenopea, e la sua famiglia, in quanto gestori dello storico bar, sono molto conosciuti. Tuttavia in pochi, ci dice, conoscono il loro cognome. Per tutti, e da ottant’anni, sono “quelli della Stazione”.

D - Come giustifica la sua esistenza?

R - Nel Dopoguerra mio padre si trovò a dover gestire brevemente il bar della Stazione (oggi Centrale). Doveva essere una cosa di una ventina di giorni, ma poi è durata ottant’anni.

D - Quali sono i suoi primi ricordi del bar della stazione di Potenza?

R - All’epoca la Stazione era un terminal di trasporto, con la funzione di accogliere -cinquanta chilometri a sud e cinquanta chilometri a nord- tutti i paesini limitrofi. E poi sul piazzale c’era lo stazionamento dei pullman, che raggiungevano quei comuni non provvisti di fermata ferroviaria. Questo trasbordo continuo rendeva la Stazione molto accorsata e popolata. L’unica cosa che oggi resiste, insieme a noi, è il barbiere: tutti gli altri sono andati via, perché economicamente non ce l’hanno fatta.

D - Gli altri sarebbero?

R - La storica edicola, una biglietteria a largo raggio...una rimessa di noleggio.

D - Perché non ce l’hanno fatta? Per la crisi economica o magari perché la zona è stata tagliata fuori?

R - E’ stata tagliata fuori da quel vecchio progetto di viadotto che doveva collegare la zona della Stazione con la superstrada. Un pezzetto ne è rimasto davanti all’Anas, ma tutta quell’operazione si è rivelata essere opportuna per la costruzione delle cosiddette “due torri”, abitazioni civili che sono di fronte. Ne consegue che però è stata del tutto “tagliata” la vecchia scorciatoia, che -asfaltata e rimessa posto- collegava la Stazione, viale Marconi con il Rione Francioso. E dava un “circuito” alla viabilità. “Tagliata” quella, la Stazione è rimasta strada...chiusa. Immagino che anche i vostri, di affari, siano calati. Siamo a un terzo di quello che era prima il movimento, perlomeno rispetto agli anni Novanta.

D - Non avete mai fatto presente questa situazione a chi di dovere?

R - (Scuote la testa) Mi ricordo una citazione, sentita in Stazione, anche se non so a chi attribuirla: “Gente di Basilicata avvezza, da sempre, a gratuite riverenze”. Questa cosa un po’ è rimasta a tutti: quando si tratta di rivendicare qualcosa, ci sembra sempre di essere, non so, presuntuosi.

D - Quindi per “pudore” lei non ha mai detto niente.

R - Sì, per “pudore”. Mi piace questa parola.

D - Oggi però ci sono più famiglie che dipendono dal vostro bar.

R - Senza esagerare, diciamo che sono tre.

D - E se dovesse provare a chiedere una cosa, attraverso questo giornale...?

R - Per parlare di una cosa possibile, partirei dalla scala mobile, o meglio, di una frazione della scala mobile. Quel piazzaletto pedonale costruitovi davanti è sicuramente, dal punto di vista architettonico, eccellente. Uno dei fautori, un architetto, è un mio amico. Impostato in spazi quattro volte più ampi, era assolutamente ben collocato, ma oggi, quello spazio che è stato preso dal giardinetto pedonale ha praticamente “annullato” il piazzale della Stazione (che è già chiuso verso il Francioso ed è privo di sbocchi). Una volta, nel piazzale, trovavano spazio vitale per il movimento anche i pullman, che potevano fare inversione, mentre adesso si è tramutato in una strada, il che rende tutto molto più complicato.

D - E quindi lei cosa chiederebbe?

R - Di ridurre quello spazio lì davanti.

D - Però presto dovrebbero partire i lavori di riqualificazione della Stazione, per gentile concessione dei fondi Pnrr.

R - Sì, per sentito dire, quest’opera di restyling atterrà più che altro all’interno della Stazione. In pratica, il camminamento per accedere ai servizi (bar, tabaccaio, biglietteria), comporterà una specie di riapertura di quell’arco che adesso, nel mio esercizio, è murato. Verrà aperto un tantino più a lato, con dimensioni più grandi, dando una visione più frontale, sino alla biglietteria. I lavori risolveranno anche quei piccoli problemi di barriere architettoniche, rappresentati ad esempio dai gradini (che sul lato binari sono molto evidenti). Lei è la memoria storica della Stazione: qualcuno vi ha chiesto dei consigli in merito? Beh, sì, i massimi esponenti del restyling si sono a lungo fermati a colloquiare con noi. Credo che il tutto dovrebbe partire a fine aprile, penso in coincidenza della chiusura per lavori della tratte per Foggia e Taranto-Napoli. Ma è sempre un sentito dire.

D - In ottant’anni di gestione familiare, ha un ricordo, di un fatto o di una persona, che l’ha segnata particolarmente?

R - Non si tratta di un solo fatto o di una sola persona. Prima esisteva un vero e proprio “Rione Stazione”, con le abitazioni di un gran numero di addetti (e famiglie) delle Ferrovie. C’era una gran bella vita sociale. Il passaggio continuo di gente che andava avanti e dietro dai paesi creava una rete di conoscenze e di “piccola solidarietà”.

D - La famosa “solidarietà di vicinato” che si racconta esistesse in Centro... ...c’era anche alla Stazione.

R - Quando ancora non erano ancora obbligatorie le cassette del pronto soccorso, nei cassetti del nostro banco c’erra sempre almeno un cerotto, dello iodio, del disinfettante, alcool denaturato, cachet per il mal di testa. C’erano, perché servivano spesso ai viaggiatori, dopo lunghi tragitti in treno. Tutto iniziò a finire quando mi fu intimato -dal medico del posto di infermeria appena istituito in Stazione- di non concedere nulla a nessuno, perché era reato. Quel posto di infermeria durò solo sei mesi, ma a noi rimase la paura di fornire quegli aiuti (di ordinaria amministrazione) e da quel momento venne un po’ meno quell’ “input emotivo”, su tutte le cose.

D - Lei è ancora oggi testimone delle differenti dinamiche del via-vai alla Stazione. Cosa ci racconta, tutto ciò, della Basilicata di oggi?

R - Di ragazzi che partono in realtà ne vedo pochi, poiché autobus e pullman privati, con orari e velocità più “spicci”, hanno praticamente assorbito il 90% dei movimenti. Senza tema di smentite, chi oggi usa il treno (o i sostitutivi) vi è costretto dagli orari di lavoro, che non gli consentono altro. E arrivano sempre un po’ scoraggiati, scoraggiati dalle lungaggini dei tempi di percorrenza. Si tratta più che altro di qualche professore del Conservatorio, di qualche impiegato di concetto che si intrattiene una decina di minuti e -senza voler apparire presuntuoso- magari ci ringrazia pure per l’esistenza di questa “isoletta”, di questa “oasi”, in questo squallore, in questo deserto.

D - Speriamo allora che campi a lungo il bar della Stazione.

R - Questa speranza ci ha sempre accompagnati. Vede, per noi quel posto è stato via via la culla, il parco giochi, la via Pal, il luogo ove si tornava al tramonto, dopo le escursioni in viale Trieste e in via Pretoria (che per noi della Stazione erano zone lontane e ambite). Noi qui ci abitavamo. Intorno c’era tutto verde, la collinetta. Qui ci ho trascorso la vita, dunque, e quindi oggi ti ritrovi a considerare il profitto in seconda posizione, rispetto ai ricordi.

D - La vostra, lo dico io, a conti fatti è anche una piccola “missione”, quella di mantenere vivo quel presidio di socialità.

R - Io non posso dirlo.

D - Cosa, di quel passato che ha descritto, si può realmente recuperare?

R - Torno a dire che ridurre l’ “anti-scala mobile” ridarebbe un pochino di agio alla “rotabilità” della piazza. Molti con le auto non ci vengono, perché è un imbuto. E poi, naturalmente, i treni regionali -oggi sacrificati sull’altare degli autobus, che sono dislocati dalla Stazione sono la vocazione della Stazione stessa, non certo le lunghe percorrenze, che ci sfiorano e vanno via.

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