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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Con i suoi recenti trionfi ottobrini all’IBFF World Championship (la più grande manifestazione di Bodybuilding e Fitness alla quale hanno preso parte, in Slovenia, oltre 400 atleti provenienti da tutto il mondo), il trentacinquenne pignolese Stefano Rosa è giunto alla straordinaria quota di 5 titoli mondiali, di cui tre di categoria e due tra i professionisti, inserendosi nella strettissima schiera dei “Classic Body builder” più forti di sempre.

«L’ultimo campionato del mondo l’ho vinto pochi giorni fa in Slovenia, in una categoria che si chiama “athletic” (in cui avevo già vinto altre volte) e in più sono l’unico Italiano nella storia del bodybuilding, federazione IBFF, a vincere sia la Coppa del mondo sia il World Cup Pro (al Giffoni Film Festival nel 2023). Da quando ho iniziato questa carriera, sono un atleta di un metro e settantasei che gareggia tra i 68 e i 69 chili al massimo: dunque sono un atleta completamente pulito».

d - Cosa intende per “pulito”?

r - Come in tutti gli sport, capita di imbattersi in atleti che utilizzano sostanze dopanti pur di accrescere la propria performance sportiva. Io questa pratica non la faccio.

d - E’ legale, nel suo sport, usare sostanze dopanti?

r - Assolutamente no, come in tutte le discipline. Persino io, avendo vinto tanto, e gareggiando con molti atleti che fanno uso di doping, vengo etichettato come uno di loro; ma io riesco a batterli in maniera pulita, e non perché sono più grosso, ma perché nella mia categoria (ove vengono valutati definizione, volume e bellezza estetica), riesco a portare un corpo più vicino a una statua. Infatti, quando alcuni vedono in me il campione del mondo di bodybuilding, si sorprendono perché si aspettavano un gigante: un ragazzo con un fisico da modello, invece, per loro è una cosa completamente diversa. Per me lo sport è vita e salute, e non qualcosa che ti deve rovinare.

d - Ma le federazioni sono a conoscenza del problema doping di cui lei parla?

r - Tutte le federazioni ne sono a conoscenza. Pensi che esiste la gara per eccellenza (alla quale non sono ancora riuscito a partecipare, non avendovi una categoria), ovvero l’Olympia, beh, vi trovi atleti di un metro e settanta che pesano centotrenta chili! Per me, si vede che una cosa innaturale. Non nego che anche dietro l’atleta che usa doping ci siano sacrifici e rischi immani, una dedizione pari alla mia, ma sembra che per raggiungere certi livelli si debba far ricorso a quelle sostanze. Pertanto io sono rimasto un gradino sotto, nelle federazioni ove accolgono la mia categoria, pur di rimanere pulito e dedicare la mia vita allo sport e alla salute.

d - Però certamente non è l’unico atleta pulito di questo sport.

r - No, non sono l’unico. Tanti mi chiamano “la mosca bianca” nella IBFF, ma anche in altre federazioni in cui ho gareggiato ci sono atleti di assoluto livello, che purtroppo non ottengono grandi riconoscimenti dai loro enti locali, né vengono fatti conoscere. Questa è però una cosa tipicamente italiana: in Slovenia, fino a pochi giorni fa, ero una star, firmavo autografi, andavo ospite alle tv locali...

d - E in Italia nulla?

r - Peggio, siamo visti come la macchia nera dello sport.

d - Perché appunto magari c’è questa “visione” di atleti che si dopano, a cui interessa solo gonfiarsi, essere belli, praticando uno sport che tra l’altro non fa neanche bene alla salute.

r - E’ vero, è un luogo comune che dobbiamo curare. La palestra è per tutti. Pensi che in Slovenia abbiamo infranto un altro record: io e mia madre (Anna Colucci – ndr) siamo stati gli unici Italiani nella storia a fare la gara di coppia madre-figlio! Mia madre ha cinquantasei anni ed è risultata vice campionessa nella categoria mondiale “Miss Over 55”, e ha vinto un “Olympia Over 55” a Taranto nel 2024.

d - Quindi lei in realtà è figlio d’arte.

r - Assolutamente sì. Tuttora pratico calcio (il mio idolo è Francesco Totti) e arti marziali, ma ho legato queste discipline al bodybuilding -che preferisco chiamare “fitness” o “cultura fisica”- perché questo sport, a sua volta, lo consente. Se fossi stato un “fissato” del culturismo e basta, non avrei potuto certo praticare anche altri sport. Ripeto, interpreto il mio sport come unica fonte di vita e salute.

d - Quanti sono in Basilicata a praticare il bodybuilding?

r - Come praticanti siamo in netta crescita (anche in virtù del “richiamo” dei social), ma come agonisti siamo in pochi, in tutto saremo venti o trenta, a certi livelli.

d - Cosa NON si deve aspettare chi si approccia a questo sport?

r - I soldi. In tutti gli altri sport, quando uno vince una medaglia importante, Olimpiadi etc., riceve una “monetizzazione” da parte dello Stato. Per noi non c’è nulla, a differenza di quanto accade in Slovenia, Ungheria, Serbia, Francia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Spagna (tutti luoghi in cui ho gareggiato), per non parlare di India o Sudafrica.

d - E quindi lei che è professionista come guadagna? Con gli sponsor?

r - Da solo o tramite chi, come il qui presente presidente Caffaro, crede in me e nella mia “politica”.

d - Il presidente della Regione Bardi, però, le ha dato un riconoscimento.

r - Sì, si è documentato per verificare chi fossi davvero e poi mi ha premiato come Eccellenza Lucana nel Mondo. Contestualmente, però, mi ha detto che fondi per il bodybuilding non ce ne sono, al massimo mi possono essere riconosciuti in rimborsi spese per le gare. Ma in tutto questo, il presidente Bardi non c’entra, il problema è più generale: se da Roma non viene sdoganato qualcosa, il mio è un settore destinato a morire. E sarebbe un peccato, perché le palestre sono in netta crescita, e infatti l’unica arma che ho sempre avuto per promuovere la mia attività, ovvero la mia palestra, è stato cercare di ottenere più titoli personali possibile, entrando nell’elite nel bodybuilding.

d - A questo punto chiediamo a Sandrino Caffaro, presidente di ASC Basilicata (Attività sportive confederate), presente al pranzo, perché un giovane dovrebbe avvicinarsi al bodybuilding.

r - Come ha già detto Stefano, sarebbe più idoneo parlare di “cultura fisica”. Oggi anche lo Stato riconosce l’alto valore sociale dello Sport, che per i giovani è fondamentale dal punto di vista della crescita psico-motoria, ma che per questioni di salute lo è anche per gli anziani. La cultura fisica mira dunque a una costruzione del corpo a 360 gradi, pur senza dare indirizzi specialistici come disciplina sportiva, e a mio avviso è fondamentale.

d - Stefano, lei quante ore si allena giornalmente?

r - Mi devo adeguare rispetto ai miei impegni lavorativi, non essendo, come dicevo, un atleta che riceve emolumenti pubblici. A volte riesco a fare una “session” completa, diversamente la divido mattina-sera.

d - Un altro luogo comune sul bodybuilding è l’essere costretti a far palestra tutta la vita, se poi non ci si vuol ritrovare con parti del corpo sgonfie e flosce.

r - E infatti è un falso anche questo. Mio padre, che ha sessantacinque anni, ed è stato un personaggio di spicco del bodybuilding del passato (pur non avendo mai voluto gareggiare), oggi ha una forma invidiabile. Mangia sano, e si allena due-tre volte a settimana, tutto qui. Mia madre, che si allena massimo tre quattro-volte a settimana, fa persino le gare! A dimostrazione che questo è uno sport super longevo. E non solo: un medico, figura di spicco della mia palestra (la “Dynamik” - ndr), ha combattuto il cancro, salvandosi grazie a uno sport sano e pulito. Questa è una disciplina che, fatta in questo modo, favorisce una vita più sana e longeva. Il mitico maestro Alfani -uno che a suo tempo ha battuto Schwarzenegger in Canada!- ha ottantasette anni e sembra un ragazzino. Mi vede come un figlio ed è uno di quelli che mi chiama “la mosca bianca”.

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di Walter De Stradis

E’

stato per decenni il presidente del gruppo lucano dell’Aiac, l’associazione italiana allenatori calcio, e -fino al primo exploit (compreso) del Caiata presidente- una figura irrinunciabile nell’organigramma del Potenza Calcio, ove ha ricoperto il ruolo dell’allenatore in seconda, praticamente «con quasi tutti i mister che si sono succeduti sulla panchina». Fra i progetti di cui va più orgoglioso, vi sono il “Premio Mancinelli”, in virtù del quale ha fatto venire a Potenza nomi molto grossi del calcio nazionale, e i corsi di allenatore tenutisi nel carcere del Capoluogo, che – a suo dire- hanno consentito a non pochi detenuti di ritrovare il giusto senso della vita, una volta fuori.

Il giorno che lo incontriamo (il 23 ottobre), mister Gerardo Passarella compie settantun anni.

d - Lei è stato, per tantissimi anni, l’allenatore in seconda di quasi tutti i tecnici che si sono succeduti sulla panchina del Potenza; ha avuto una parentesi come allenatore titolare (nel 1992-93) ed è stato responsabile dell’area tecnica.

r - Sono stato calciatore per il Potenza, successivamente per alcune squadre dilettantistiche, e poi sono tornato come allenatore in seconda e delle giovanili.

d - La domanda è: perché c’è sempre stato bisogno di Passarella?

r - Non saprei, forse perché, con molta umiltà, ho sempre voluto svolgere il mio ruolo. Guardi, a me non ha mai interessato fare l’allenatore in prima qui a Potenza, troppo complicato. L’allenatore in seconda, invece, è -a mio avviso- proprio la figura che la società non può permettersi di sbagliare; fa da cosiddetto “sarto”, cuce i rapporti, tra squadra, allenatore e società.

d - Cioè i giocatori vanno a lamentarsi da lui?

r - Sicuramente sì. Ma tenga presente che è una figura che la società non può sbagliare, perché se prende un allenatore in seconda il cui obiettivo è fare le scarpe al primo...sono guai. Io ho fatto l’allenatore in seconda con tutti, ma non mi hanno mai fatto sentire “un secondo”, bensì un collaboratore. Ho sempre rispettato: sapevo dove finiva il mio ruolo e dove iniziava quello dell’altro.

d - Non ha mai invaso lo spazio dell’allenatore.

r - No, c’era collaborazione, cosa rara nel calcio, perché spesso il secondo...

d -...sgomita.

r - Esatto. Certo, poi ho avuto l’occasione di fare l’allenatore in prima, perché andò via Lombardo (una persona eccezionale), arrivando fino allo spareggio di Foggia; ma la stagione successiva, benché la società avrebbe voluto confermarmi, tornai tranquillamente a fare il secondo, al fianco del mio grande amico Marcello Pasquino, che non c’è più.

d - Quindi potremmo titolare: “Allenatore in seconda per scelta (non degli altri)”.

r - Certo. Non che mi sia mancata l’opportunità di andare a fare l’allenatore fuori, ma, lavorando qui a Potenza (al Ministero dei Beni Culturali – ndr), ho sempre preferito rimanere in città.

d - Che momento vive il calcio in Basilicata? Mi riferisco tanto alla FGCI, quanto ai settori giovanili e agli impianti.

r - La situazione del calcio locale è in tutto e per tutto simile a quella nazionale. Come allenatore professionista sono stato anche più volte delegato per l’elezione del Presidente nazionale della Federazione, e dico che ci vuole un “reset”: non è possibile che da quaranta, cinquant’anni, ci siano sempre le stesse persone.

d - Bisogna rottamare, per usare un termine caro a Renzi?

r - Direi proprio di sì. Dai vertici nazionali fino a scendere giù, “a pioggia”, devono essere resettate pure le guardie giurate.

d - Ma cosa c’è che non va, a parte l’età delle persone?

r - Io vorrei un confronto con queste persone che sono al loro posto da così tanti anni, sia a livello nazionale sia regionale, affinché possano spiegarmi quali sono stati i miglioramenti ottenuti, che cosa hanno dato al calcio. Pensi che qui in Basilicata, da oltre 150 squadre, siamo giunti sì e no a 100. Di questo passo rischiamo l’accorpamento alla Puglia o a qualche altra regione. Chi sta lì, insomma, che cosa fa? Il problema è che alle società sembra andare tutto bene, salvo poi lamentarsi.

d - Ma l’imprenditoria locale crede ancora nel calcio?

r - Credo di sì, ma va anche detto che diverse realtà mancano all’appello del calcio che conta: Melfi, Lavello, tutti questi grossi centri, non meritano certo le categorie in cui stanno giocando.

d - E come mai, nella storia, pochissimi giocatori lucani (Colonnese, Zaza...) sono emersi a livello nazionale?

r - Questo non è vero. Se facciamo le dovute proporzioni con le altre regioni, beh, non sono pochi: Colonnese, Lo Re, Bruno... Colonnese forse è stato il top, ma ci sono stati anche Catalano, Nolè. Queste cose accadevano quando si faceva il settore giovanile come si deve. Col professor Bochicchio di Avigliano andavamo a cercare i migliori talenti in giro per la Basilicata e facemmo una squadra veramente all’altezza della situazione. Tant’è vero che quell’anno Colonnese, Lo Re e Bruno furono venduti e avviarono le loro carriere di successo. Sette dei nostri ragazzi fecero inoltre parte della rosa di prima squadra.

d - Quindi oggi il problema è tutto nel settore giovanile?

r - Proprio lì. E una scuola calcio NON E’ un settore giovanile. Quest’ultimo si viene a creare quando una società investe e si sceglie i ragazzi. Le scuole calcio invece sono degli oratori a pagamento. Mi consenta la provocazione, ma mi devono dimostrare cosa si riesce a insegnare a un bambino di cinque/sei/sette anni. Questi ultimi hanno bisogno di tecnici qualificati, perché la facilità di apprendimento in un bambino è sopratutto visiva, ma alcuni dei cosiddetti tecnici non hanno gli strumenti. Il problema è a livello nazionale: sono state abilitate persone che il pallone non l’hanno mai visto, neanche al negozio sotto casa. E poi, anche se avrei dovuto dirlo per primo, non c’è rispetto dei ruoli: ci sono giornalisti che pretendono di fare i tecnici, dicendo fesserie, tra l’altro. Ognuno deve fare il suo.

d - Diciamo una cosa positiva: quali sono stati i personaggi che hanno dato DAVVERO qualcosa al calcio potentino, e di conseguenza anche alla città?

r - Dal punto di vista tecnico, direi subito Gino Masperi: quelli della mia generazione devono dire grazie a lui se, alla nostra età, riusciamo ancora a calciare la palla. A livello dirigenziale, citerei un po’ tutti quelli che si sono succeduti: Sandrino Giraldi, Geny D’Onofrio, Pietrafesa, Zaccagnino, Basentini, Postiglione. L’elenco sarebbe più lungo. Hanno tutti dato un contributo. Adesso c’è Macchia.

d - Le piace il corso Macchia?

r - Beh, dico quello che ho detto anche in riferimento alle gestioni passate: quando una società piglia e parte, senza essersi prima seduta e aver stanziato un tot congruo per il settore giovanile, individuando tecnici qualificati, per me non c’è futuro. Perché poi in questo modo si vivranno sempre i “carpe diem”. Se andiamo a vedere quanti fallimenti ci sono stati...si capisce che bisogna costruire dalla base. Una casa non la si costruisce a partire dal tetto. E vanno prese le persone più qualificate: un costruttore non assumerà mai un muratore per fargli fare l’ingegnere. E, come dicevo, una scuola calcio, coi suoi tempi molto limitati, non può sopperire.

d - Il suo appello è chiaro: ricostruiamo il calcio a partire dal settore giovanile.

r - Oh!!! E se una prima squadra fa cinque allenamenti a settimana, una giovanile ne deve fare sei! E’ un’impresa, ma va fatta. Le scuole calcio ci sono perché con dieci-quindici gruppi a giornata, sono soldi, e poi -diciamocelo- per certi genitori diventano un parcheggio, laddove una volta invece c’erano gli oratori. Ma, ripeto, è un problema nazionale. I ragazzi di oggi si stanno allontanando dal calcio; e sa perché non emergono più talenti? Perché non si gioca più in mezzo alla strada! I bambini di oggi, sempre attaccati ai cellulari, non fanno attività motoria.

d - Veniamo alla questione Viviani, ove i lavori si sono fermati. Secondo lei è meglio ampliare o delocalizzare?

r - Non sono dell’avviso di delocalizzare, visto che probabilmente stiamo parlando dello stadio più vecchio d’Italia. D’altronde, dovremmo fare uno stadio da 15-20mila posti...e per metterci chi? I numeri non ce li abbiamo. E poi, delocalizzazione dove??? Pertanto, io sistemerei il Viviani: coprendo i distinti e le curve, ne verrebbe fuori un gioiellino.

d - Un episodio che porterà sempre con sé?

r - Nell’anno dello spareggio a Foggia, stagione 1992/93, avevamo una squadra veramente notevole (Libro, Toscano, Marino, Crucitti: oggi mi hanno chiamato tutti per farmi gli auguri). Facemmo lo spareggio dopo un mese, mentre tutte le altre squadre erano al mare. La tensione e le aspettative erano molto alte. Una volta arrivati allo stadio, vennero da me Del Giudice e il capitano Garzieri, chiedendomi di incontrarmi -da solo- per cinque minuti. Io -me ne vergogno a dirlo- malignai per un secondo, ma una volta entrati da soli negli spogliatoi, loro mi dissero queste parole: “Mister, parliamo a nome di tutti: noi oggi questa partita la giochiamo per te”. Mi commuovo ogni volta che ci penso. Come dicevo, con loro ho un rapporto eccezionale ancora oggi.

d - La città, in generale, come la vede?

r - Come una RSA, perché tutti i giovani stanno andando via. La politica si deve porre soprattutto questo problema, altrimenti è inutile fare gli stadi grandi, eh.

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

Se i suoi calcoli sono corretti, qui a Potenza potrebbe aver allenato sette/ottomila ragazzi.

Francesco Castrataro, per tutti “Mister Cecchino”, è stato infatti per quarant’anni l’allenatore del settore giovanile del Potenza Calcio, ma sicuramente anche qualcosa di più, dal punto di vista umano.

La sua casa in via Anzio è piena di trofei, fumetti e giornalini (di cui è amatore e collezionista), ma soprattutto di ricordi, cristallizzati in un gran numero di foto, ammucchiate in scatoloni o appese sulle pareti di stanze in cui Cecchino, se può, evita di entrare. Per non essere sommerso dalle emozioni.

d - Perché la chiamano tutti, da sempre, mister “Cecchino”?

r - (Ride) Perché ero un “bomber”.

d - Lei di dove è originario?

r - Di Sala Consilina, in provincia di Salerno.

d - Quindi lei si è trasferito qui a Potenza da giovane?

r - Sì, avevo vinto il concorso a Roma per la Ragioneria generale dello Stato. Per ragioni di famiglia (mia madre era sola, poiché mio padre era morto in guerra, in Africa Orientale), chiesi di essere trasferito proprio a Potenza. Mi volevano mandare a Napoli, ma rifiutai. Che bello, mi ricordo ancora quando arrivai qui con la macchina, e c’era la neve.

d - E Potenza vi è piaciuta per quello?

r - Ahhh, che cosa bella. I ricordi sono tanti.

d - Com’è che avete iniziato a fare l’allenatore delle giovanili del Potenza?

r - Alla Ragioneria Regionale qui a Potenza, conobbi Cerverizzo, un dirigente della società, che veniva in ufficio a riscuotere i mandati di pagamento, poiché aveva una sua impresa. Parlavamo sempre di calcio, finché lui non mi portò al Potenza.

d - Lei infatti aveva già avuto esperienza di calcio.

r - Avevo giocato nella Pollese e in altre squadre campane. Ma grazie all’invito di Cerverizzo iniziò un’altra vita. Cominciai ad allenare i giovani, era più o meno il 1964. E quante avventure. A Matera, poi, non ne parliamo.

d - La sfida eterna.

r - Con le giovanili, a Matera avevamo sempre perso. Arrivato io, si fecero le finali regionali. Chi vinceva, andava a fare i campionati nazionali, era una sfida che si ripeteva ogni anno. Quella volta Peppe Catalano (che poi andò a giocare in serie A) fece tre gol meravigliosi e per noi finì l’incubo Matera.

d - Quanti altri calciatori importanti ha allenato?

Colonnese, Stenta... Vito Stenta l’ho cresciuto io.

d - Ma, in quarant’anni, più o meno, quanti ragazzi potentini (o del circondario) ritiene di aver allenato?

r - Mah...nell’altra stanza ho uno scatolo pieno di cartellini, coma usava allora. C’è tutto lì.

d - Immagino che solo una parte di questi ragazzi poi siano effettivamente diventati calciatori; tutti gli altri ve li siete ritrovati chi in banca, chi al comune, chi al catasto...

r -...per la miseria! C’è chi è maresciallo dei Carabinieri... Ricevo telefonate continue. Nelle foto appese in casa mia...lì ci sono tutti i giocatori.

d - E quando ne incontrate uno...cosa vi dicono, di solito, i vostri ex allievi?

r - Mi vogliono troppo bene. Per loro sono il ricordo più bello. Oltre a essere un allenatore di calcio, li seguivo in tutto e per tutto. Persino a casa loro, se fumavano, io mi arrabbiavo moltissimo. «Se fumate, non giocate più», gli dicevo.

d - Vi sentivate quindi anche un educatore?

r - Un educatore, sì.

d - Qual è il valore più importante che avere sempre cercato di inculcare nei vostri giovani giocatori?

r - La serietà, lo studio, il rispetto e l’essere uomini.

d - Quanta gente vi deve dire grazie?

r - Senza esagerare, sette o ottomila persone.

d - E c’è stato qualche ingrato?

r - Uno solo.

d - E’ diventato famoso?

r - Sì.

d - Un ricordo su tutti?

r - Sono tanti. Tanti e tanti... Avrei dovuto scrivermeli. Ricordo la finale dei Campionati italiani Allievi. Tra gli avversari c’era Ancelotti, che giocava, non so, mi pare fosse la Carrarese. Le squadre allora andavano per semestri, era questione di pochi giorni perché un giocatore passasse dagli Allievi negli Juniores; e proprio lui che era “fuori semestre”, e non avrebbe potuto giocare, segnò il gol della vittoria contro di noi.

d - E quindi il suo ricordo più bello è una sconfitta?

r - No, il ricordo più bello è stato a Castelfiorentino, dove ho conosciuto Roberto Baggio. Perdemmo in finale con la sua squadra, e Baggio ci fece due gol. In porta noi avevamo Catalano, diventato successivamente preparatore dei portieri del Potenza Calcio. Era il periodo di Pasqua, e il torneo durava cinque giorni; l’autista era fidanzato, però, e ci lasciò a piedi a Castelfiorentino. Avevo la responsabilità di ventidue ragazzi, fortuna che ci ospitò il convento! Comunque, un nostro giovane giocatore era proprio di Castelfiorentino, e morì purtroppo in un incidente stradale, mentre tornava nel suo paese. Se volessi raccontare tutto, ci vorrebbe un mese. Di ricordi belli però ce ne sono tanti...dovrei aiutarmi con le foto.

d - Il calcio lo segue ancora?

r - Porca loca!

d - E oggi, secondo lei, è cambiato il modo di intendere il calcio, anche da parte dei giovani?

r - Male, male. (scuote la testa – ndr). Oggi nel vivaio del Potenza, giocatori di Potenza, a parte qualcuno, quasi non ce ne sono. Io invece curavo tutti i ragazzi della città. Erano tutti di Potenza.

d - Vi piace il Potenza di adesso o vi desta qualche preoccupazione?

r - Tira a campà.

d - Quale consiglio dareste all’allenatore o al presidente attuale?

r - Non saprei dire, perché so che non è una cosa facile.

d - Quale deve essere, in primis, la caratteristica di un buon allenatore?

r - Essere un padre. Un allenatore scorbutico strada non ne fa. Mi ricordo che l’allenatore del Potenza, Mancinelli, mi voleva bene, e veniva a vedere le partite della mia squadra in giovanile. In buona parte le giocavamo al campo della Figc. E Mancinelli, che si sedeva sempre in tribuna a vedere le nostre finali regionali, diceva: «Cecchino è il più grande allenatore del settore giovanile».

d - E come cittadino, Potenza vi piace ancora?

r - Per me Potenza è sempre meravigliosa.

d - Cosa direste al sindaco?

r - Nulla, perché ognuno sa il suo. Potenza mi piace. Qui mi vogliono bene tutti.

d - Fra pochi giorni compie 90 anni. Cosa vorrebbe come regalo?

r - Il regalo già me l’hanno fatto gli allievi, organizzando una festa che si terrà il 22 ottobre, giorno del mio compleanno.

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di Walter De Stradis

 

 

A rileggere la trascrizione dell'intervista, si evince che il suo verbo preferito è probabilmente “spingere”.

E ben si comprende, visto che il 25enne Donato Telesca (da qualche mese entrato nella Polizia di Stato come atleta-poliziotto), nel sollevare (cioè spingere in alto) pesi, ha vinto e stravinto dappertutto, battendo record mondiali e collezionato medaglie, ultima in ordine di tempo quella di bronzo ai recentissimi Giochi Paralimpici di Parigi.

L’atleta pietragallese in questi giorni è stato dunque celebrato e festeggiato dappertutto (a cominciare dal suo paese) e quando lo incontriamo al ristorante ha appena ricevuto, assieme alla fiorettista potentina Francesca Palumbo, una medaglia commemorativa dalle mani del presidente del Consiglio regionale Marcello Pittella.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Cercando di lasciare un segno, di ispirare le persone. Come? Dimostrando, non a parole, ma con un esempio concreto, che è possibile non arrendersi mai e raggiungere i propri obiettivi nonostante le difficoltà.

d - A sua volta, mi pare di ricordare, lei è stato ispirato dall’esempio di qualcuno.

r - Ho incontrato Alex Zanardi quando ero piccolino. Eravamo in ortopedia e a entrambi stavano preparando le protesi. Conoscere un campione dello sport paralimpico per me è stato importantissimo e sicuramente ha influenzato molto le mie scelte, inculcandomi l’idea di potercela fare. Si può dire che è stata la proverbiale luce in fondo al tunnel. Il faro di cui avevo bisogno.

d - E perché lei scelse la pesistica?

r - Iniziai a praticarla in palestra molto giovane. Capii di aver imbroccato la strada giusta fin dall’inizio, poiché spendevo tutto me stesso, ma non mi pesava. Capii che gareggiare in quel mondo, rapportandomi con le giuste persone, era ciò che mi piaceva davvero.

d - A parte Zanardi, c’è un personaggio a cui deve dire grazie?

r - Sicuramente ad Arnold Schwarzenegger, un idolo che mi ha ispirato col suo esempio: “non importa da dove parti, ma dove vuoi andare”. Lui era un ragazzo con dei sogni, che una volta arrivato in America ha fatto diventare realtà, prima nel bodybuilding, poi nel cinema e poi ancora addirittura nella politica!

d - Schwarzenegger è stato infatti governatore della California per tanti anni; anche lei sogna, magari più in là, di entrare in politica?

r - Guardi, onestamente non so rispondere. Sicuramente vorrei lasciare un segno anche in altri ambiti...se poi il destino vorrà che io entri in politica, beh, dovrà essere in un ruolo che mi consentirà davvero di fare delle cose, perché a me non piace parlare a vuoto. Sono un uomo di sport e se ci sono le condizioni per dare il mio vero contributo, sono lieto di farlo. Mi percepisco come un uomo al servizio della Patria e del popolo.

d - Lei è di Pietragalla, comune in provincia di Potenza. Quando un Lucano ce la fa, siamo un po’ tutti portati a porci una domanda, che le rigiro: lei è andato alla conquista del mondo, ma è stato difficile partire da un piccolo centro della Basilicata?

r - Assolutamente sì. Molto difficile. Qui manca davvero tanto: le visioni, la reale voglia di fare, le persone giuste che ti possano accompagnare. Io ho sopperito a tutto questo con una estrema voglia di farcela, la voglia di spingere più forte degli altri. Ce l’ho fatta, ma non nascondo che è stato difficile. E infatti uno dei miei grandi progetti è proprio quello di consentire alle generazioni future di aver il giusto “ecosistema”, il giusto posto, per raggiungere alti livelli. Ho avuto già modo di accennarne, proprio oggi, al Presidente del Consiglio Regionale, Pittella: cambiare il tessuto sportivo della Basilicata, con il mio esempio e con la mia esperienza. Lui mi è sembrato molto ricettivo e chissà che nel giro di due-tre anni non accada già qualcosa.

d - Ma cosa è mancato finora? Le strutture, il personale formato, le società sportive...?

r - Un po’ tutto. Ma in ogni cosa ce la si può fare comunque, basta mettersi al lavoro con caparbietà e sistemare le situazioni varie. Io l’ho fatto, ma quanto è stato difficile! Il 99% delle persone non ce l’avrebbe fatta. Come dicevo, ci vuole tantissima forza di volontà e a volte si tratta di rimetterci anche di tasca propria. Quante persone lo farebbero? Questa è la vera domanda. Dunque va data una possibilità a tutti quanti, il che di conseguenza porterebbe a più persone formate e a più strutture.

d - Con Pittella ha parlato di un progetto: può essere più specifico?

r - L’idea è quella di una specie di centro regionale, multi-sportivo, di preparazione olimpica. Non parlerei però di “palazzetto”, perché quel tipo di modello ritengo non sia vincente, bensì di una palestra polivalente. Negli ultimi sei anni mi sono allenato nei più grandi centri di preparazione italiani e anche nelle palestre americane, e quindi ho compreso quale può essere il sistema vincente, utile a ospitare atleti, persone che amano lo sport e coloro che vogliono semplicemente allenarsi.

d - Lei attualmente, per ragioni sportive, vive in Campania. Tuttavia, come già accennato, gira per il mondo e spesso fa la spola da e per la Basilicata. Quando torna in questa terra, dopo aver osservato le altre le realtà, qual è la “carenza” che più di altre le salta all’occhio?

r - Quando torno in Basilicata noto desolazione, una situazione molto “spenta”, tanta rassegnazione. C’è una specie di paura del cambiamento, perché non ci è mai stata data la possibilità di vederlo accadere, e siamo scoraggiati. La mia non è una critica rivolta ad alcuno, per carità, ma sono per natura portato a osservare una situazione e a pensare a cosa si può fare in merito. Mancano le infrastrutture? Bene, mettiamoci al lavoro, perché le situazioni di altre regioni dimostrano che non è impossibile ottenere certi risultati. Sa, da sportivi noi siamo abituati a rimbeccarci le maniche, il discorso ci viene più facile.

d - C’è un qualche tipo di domanda, su di lei o sullo sport paralimpico in generale, che la stampa le rivolge sempre e che magari le infastidisce? (Sperando di non avergliela già fatta io).

r - Non credo ci siano domande scomode, se uno ha sempre il coraggio di rispondere. Più che altro a volte c’è il luogo comune, tra la gente, che ci vede come persone con grandi difficoltà che non riescono a fare tante altre cose. La verità è che fra il mondo paralimpico e quello olimpico non c’è alcuna differenza; anzi, nel nostro aumentano le difficoltà. La competitività degli atleti paralimpici ormai ha raggiunto livelli tali da raggiungere quella degli atleti olimpici.

d - Anche a livello mediatico, lo sport paralimpico, ormai da anni, non è più una semplice “curiosità”, come poteva esserlo tempo fa.

r - Certamente. Il mio amico Simone Barlaam, fortissimo nuotatore, nell’ultima gara ha stabilito un nuovo record mondiale: 23”90 nei 50 metri stile libero. Si tratta di velocità che non coprono nemmeno le persone “normali”. Pertanto, se una persona a cui magari manca un piede, riesce a ottenere certi risultati, beh, dimostra che parlare di “sport minori” è ormai quantomeno riduttivo.

d - Anche lei riesce a fare cose che la maggior parte delle persone non potrebbe mai fare.

r - Sì, è così.

d - Il film che la rappresenta?

r - “Rush”: è la storia, vera, dei due corridori Niki Lauda e James Hunt. L’idea è sempre quella di andare sempre oltre, di continuare a spingere sull’acceleratore, di spingere una vita ai limiti delle proprie possibilità.

d - Niki Lauda subì un incidente che avrebbe stroncato la carriera a chiunque.

r - E lui si è rialzato e ha spinto più forte che mai.

d - La canzone?

r - Non saprei dire, non sono un appassionato.

d - Il libro?

r - Beh, il mio! (risate). S’intitola “In piedi” e racconta la mia storia nel dettaglio.

d - Tra cent’anni scoprono una targa a suo nome: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r - Domanda profonda. Direi: <<A colui che ha dimostrato che i limiti sono fatti per essere infranti>>.

 

 

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landi_e_de_stradis.jpgMentre parliamo, non posso

fare a meno di notare alcuni

dei suoi (molti) tatuaggi.

Due sono dedicati ai

fi gli, un altro, sul braccio

sinistro, raffi gura un leone, probabilmente

il suo lato “animale”. Ma ce n’è ancora di

spazio, su due metri e tre di altezza, per

futuri ornamenti.

Aristide Landi, trentenne campione di

basket potentino (ha vinto gli europei

con la nazionale under 20 nel 2013 ed

è attualmente in forza al Torino, in A2),

fi glio d’arte (il padre Edmondo è stato

una leggenda locale), da quindici anni gira

per l’Italia con successo (Bologna, Roma,

Trieste, Milano), ma ogni volta che torna

nella sua Potenza, man mano gli si delinea

in testa con più chiarezza un “disegno” che

riguarda la sua città.

D - Come giustifica la sua esistenza?

R - La ricollego certamente all’ambito sportivo.

Devo tutto a mio padre, poiché è lui che

mi ha trasmesso questa grande passione,

andavo a vedere le sue partite quando

ancora ero nella pancia di mia madre.

Quest’ultima, invece, giocava a pallavolo;

insomma ho avuto due genitori sportivi

che da sempre mi hanno accompagnato e

assecondato questa mia voglia di emergere.

D - Le sarà mai capitato di sentirsi dire nella

sua carriera: “Ah, sei di Potenza? Ma

Potenza dove si trova? “

R - Sempre. Tutti i giorni. Ma lo vivo come un

punto a favore, è un orgoglio. Anche se torno

a casa una volta l’anno per me rimane una

gioia immensa. Per me questa è casa e guai

a chi me la tocca.

D - In realtà mi ha fornito uno spunto. Suo

padre è stato un grande personaggio del

Basket potentino, mi pare di aver letto a

tal proposito su Facebook un post di un

personaggio politico locale nel quale si

sottolineava che proprio suo padre qui

non è mai stato celebrato come merita.

Lei è d’accordo?

R - In realtà con quel politico, Smaldone, ho

avuto modo di incontrarmi di persona e di

intrattenere una piacevole chiacchierata.

Sono rimasto particolarmente legato

nel tempo alle parole dell’ex assessore

Ginefra il quale aveva dimostrato la

volontà di intitolare il Coni in memoria

di mio padre. Sono a Potenza da qualche

giorno e, insieme alla mia compagna, mi

è capitato di apprendere che ci sarebbe

la volontà, sempre in merito alle sorti del

Coni, di destinarlo ad un progetto differente

e ai cosiddetti “sport minori” come le arti

marziali. Le dico la verità, ne ho sofferto

molto. Mi sarebbe piaciuto che proprio lì,

nella sede del Coni, ci fosse stato un campo

da Basket, magari dedicato a mio padre.

Quando ho saputo che sarebbero stati

privilegiati altri sport un po’ ne ho sofferto.

Io sono nato in quella palestra, andavo a

vedere mio padre giocare anzi, dico di più,

avrei voluto dare una mano durante le fasi

della ristrutturazione, sarebbe stato anche

un modo per fare emergere qualche nuovo

talento locale nella pallacanestro. Con

Pierluigi Smaldone, come dicevo poc’anzi,

c’è stata una piacevole e produttiva

chiacchierata, speriamo che qualcosa si

muova. Vedere il Coni in quelle condizioni

fa male al cuore. Quando si parla del Coni a

Potenza l’associazione con la Pallacanestro

è immediata.

D - Lei è uno dei pochi sportivi di successo

che ho sentito, che parla di fare qualcosa

per la città. Magari al termine della sua

carriera da giocatore ha intenzione di

ritornarci e riversare qui le competenze

e le abilità acquisite?

R - Io ho ancora molti amici che sono rimasti

qui e che sono degli sportivi. Quello che

non riesco a comprendere è come sia

possibile che oltre a me non ci sia stato più

nessun giovane ad emergere nel basket.

Qui ci sono tante società, ma ognuna

lavora per conto suo. Quando stavo a

Bologna, ad esempio, c’erano la Virtus

e la Fortitudo, il top a livello italiano nel

settore giovanile. Ebbene anche tutte le

altre società collaboravano tra di loro. Tutti

facevano squadra per provare a fare un

settore giovanile di qualità. Semplicemente

ci si metteva tutti insieme, mentre qui

questa cosa non accade, ognuno coltiva il

suo orticello. È visibile a un occhio esperto

come il mio che tra le società locali non ci

sia armonia. E questo purtroppo è il nostro

limite.

D - È per questo, secondo lei, che rimane

l’unico a essere emerso?

R - Magari ho avuto la fortuna di nascere con

un talento, ma dietro ci sono tanti sacrifici e

un duro lavoro. Io devo ringraziare Gaetano

Larocca che mi consentiva di tirare al

campetto nei giorni di libertà. Ci rimanevo,

a volte, anche fi no alle due di notte. Vorrei

tanto provare e fare qualcosa di bello per

la mia città, anzi, dopo la chiacchierata

con Smaldone ho buttato giù qualche idea,

magari per la prossima estate.

Non voglio costringerla ad anticipare

qualcosa, ma secondo lei cosa si potrebbe

fare?

Un camp professionale per i giovani. Voglio

metterci la faccia e perché no, sponsorizzare

una società, ma coinvolgendo tutti.

Vedremo.

E secondo lei a strutture sportive come

siamo messi? Potenza è stata anche Città

europea dello sport, ma non se n’è accorto

nessuno.

Di certo c’è molto da lavorare. Io ho

trascorso buona parte della carriera nelle

città top italiane ove non mi sono mai potuto

lamentare delle strutture. Qui ce ne sono

tante, forse pure troppe per le dimensioni

della città stessa, quindi è normale che non

si riesca ad averle tutte perfette, poiché i

costi sono elevati. Le strutture principali

come il Pala Rossellino o la Palestra Vito

Lepore -grazie anche al supporto delle

società che se ne servono- devono però

essere riqualifi cate, specialmente per ciò

che concerne il parquet, i canestri o le

dimensioni del campo. È ovvio che le società

da sole non ce la possono fare, pertanto si

rende necessario anche il supporto delle

istituzioni competenti.

Quando le capita di tornare, come “vede”

la sua città?

Ho trovato tanti locali nuovi e un bel

fermento, specialmente durante il weekend.

Si mangia bene e si beve altrettanto bene.

In merito ai collegamenti direi qualcuno

buono, altri peggiori, ma le buche purtroppo

non mancano mai. Ma qui sto bene e non mi

lamento.

D - Come immagina il suo futuro postbasket?

R - Per ora non ci voglio pensare. Mi piacerebbe

però molto allenare o, chissà, mi dedicherò

agli investimenti che ho fatto.

D - Qual è il suo più bel ricordo in ambito

sportivo?

R - Quando ho vinto l’Europeo Under 20

o la promozione con la Virtus Roma. O

forse anche il mio rientro a seguito di un

bruttissimo infortunio durato otto mesi. Mi

ero fatto male durante una semifi nale per

lo scudetto con l’Under 17, se non sbaglio.

Mi sono rotto il crociato e ricordo che

nonostante tutto mi allenavo otto ore al

giorno solo per fare terapia. Quando sono

rientrato in campo è stata una bellissima

soddisfazione.

D - Viviamo in un Paese di calciatori e

allenatori. Nel caso specifico del Basket,

vi sentite un po’ trascurati dai media?

R - È normale rispondere sì. In Italia gira tutto

intorno al calcio. Qui c’è poca spinta sulla

pallacanestro.

D - Però forse la pallacanestro è anche più

salutare?

R - Tutti dicono che lo sport fa bene, ma non

hanno visto le Tac e le Risonanze (risate

generali, ndr). Insomma lo sport fa bene, ma

puoi avere in futuro qualche problemino.

D - La canzone che la rappresenta?

R - “The show must go on”, anche perché mi

ricorda un periodo duro della mia vita. Ma

ascolto un po’ di tutto.

D - Il libro?

R - Le dico la verità: non sono un lettore.

D - In cosa spera che la Basilicata vada a

canestro”?

R - Bella domanda! Spero che riparta dai

giovani e dallo sport, che penso sia un

elemento che possa in qualche modo

salvare, nel caso specifico, Potenza. Ho

seguito un po’ il Potenza Calcio e ho visto

che c’è un presidente che ha investito

molto. Spesso qui nel Basket non accade,

perché ognuno vuole comandare ed essere

al centro. Basterebbe investire in una sola

società e mirare a giocare in B.

de_stadis_e_votta.jpg

 

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Guardalinee: il signor

Votta da Moliterno”.

Un tempo Ameri, o magari Pizzul,

avrebbe sicuramente annunciato così l’esordio

in serie A (avvenuto

a maggio scorso), del trentaduenne Federico

Votta, giovane dall’aplomb inglese che “nella

vita” segue il commerciale in una ditta di

trasporti e logistica. Linguaggio d’altri tempi

a parte (ma è doveroso segnalare il mancato

aggiornamento in materia dello scrivente), è

opportuno precisare (e anche l’interessato pare

tenerci) che gli “assistenti arbitrali” (termine

più moderno) con la bandierina, al pari degli

arbitri, nel gergo sportivo vengono abbinati al

comune della sezione arbitrale (in questo caso

Moliterno) e non a quello di nascita (sempre in

questo caso, Marsico Nuovo).

D - Da bambini un po’ tutti sognavamo di

diventare calciatori...lei invece sognava di

diventare arbitro?

R - (Sorride) No, a dire il vero, sognavo anch’io

di fare il calciatore, ma poi una serie di

vicissitudini mi ha portato a intraprendere il

percorso arbitrale, di cui mi sono innamorato.

Quel che è certo, è che di base ci vuole

comunque una grande passione per il calcio.

D - Lei ha iniziato come arbitro in mezzo al

campo, facendo molta esperienza in serie

D, e successivamente è diventato assistente

arbitrale, quello che una volta si chiamava

guardalinee”. In questa veste, il 13 maggio

scorso, ha esordito in serie A, nella partita

Fiorentina-Monza.

R - Sì, in serie D ero arbitro, ma non sono

riuscito a passare in C; ho quindi fatto un

corso di qualificazione (messo a disposizione

dall’Associazione Italiana Arbitri); l’ho

superato e ho iniziato dalla serie superiore,

ovvero la C, il percorso di assistente arbitrale.

Dopo cinque anni, ho ricevuto la promozione

alla CAN( Comitato Nazionale Arbitri serie A

e B).

D - Rispetto all’arbitro un assistente arbitrale

ha maggiori o minori pressioni?

R - E’ una cosa molto soggettiva, che in realtà

dipende molto dal nostro approccio. Se guardo

indietro alla mia carriera, mi accorgo che

provavo più tensione in una partita di Prima

Categoria di un certo tipo, rispetto, magari, a

quella di serie A che ho fatto.

D - I calciatori sono molto scaramantici. Gli

arbitri pure? Anche lei fai gli scongiuri

prima di una partita?

R - (sorride). L’arbitro è molto scaramantico, e lo

sono anch’io. E anch’io, come tutti, ho i miei

riti, prima della gara, dopo la gara, o durante

gli allenamenti.

D - E’ difficile ammettere un errore? Cosa si

prova, in quel caso, rivedendosi in tv?

R - I primi ad addolorarsi per un eventuale errore

siamo proprio noi. Ma fa parte del gioco. Così

come un giocatore può sbagliare un calcio di

rigore, un arbitro o un assistere arbitrale può

sbagliare su un fuorigioco o su un fallo. La

chiave di volta risiede in come reagiamo.

D - Lei in serie D ha arbitrato in tutta Italia. Ha

notato differenze tra Nord e Sud?

R - Sicuramente al Sud mi è capitato di arbitrare

gare con un clima ben diverso, magari, rispetto

a gare del Nord, ove c’è un clima più sereno.

Questo dal punto di vista ambientale. Dal

punto di vista tecnico, invece, non ho notato

grandi differenze.

D - Sono sicuro che di aneddoti, anche coloriti,

da raccontare ce ne sono. Le è mai capitato

di dover essere scortato dai Carabinieri? Ha

mai ricevuto minacce?

R - Di aneddoti in effetti ce ne sarebbero. Ricordo

in particolare una gara di Interregionale,

a Palmi, in Calabria. La gara andò bene,

ma c’era comunque molta animosità e i

Carabinieri preferirono scortarci all’uscita

dalla stadio. Ma niente di particolare, in realtà.

Episodi molto eclatanti non ce ne sono stati.

D - Una cosa che in campo la fa particolarmente

arrabbiare?

R - Non me ne viene in mente nessuna, anche

perché sul campo bisogna essere pacati,

evitando di “arrabbiarsi”.

D - C’è una figura alla quale si inspira, in

particolare?

R - Di sicuro, ma preferisco tenerla per me.

(sorride)

D - Ci può dire almeno chi è stato, a suo avviso,

il miglior arbitro italiano?

R - Anche questo lo tengo per me (sorride).

D - Dopo l’esordio in serie A, ci saranno altre

partite?

R - Dipenderà tutto da me. Ogni anno si riparte da

zero. Sicuramente la designazione di serie A è

stata qualcosa di emozionante, un sogno che si

è avverato.

D - Come avviene materialmente?

R - E’ l’arbitro che chiama il team arbitrale. E

quindi, molto semplicemente, mi ha telefonato.

Di lì è scoppiata la gioia.

D - Facile immaginare che finora, sia il ricordo

più bello.

R - Beh, ce ne sono tanti altri. Sa, ciò che ci lascia

questa carriera è anche tutto ciò che c’è

intorno: l’Associazione, la conoscenza di tante

persone in giro per l’Italia, le amicizie che

nascono e che ti porti dietro per anni, anche

fuori dal contesto sportivo.

D - Quanto dura la carriera di un arbitro? E’

più lunga di quella di un calciatore o magari

oggi corre in parallelo?

R - Dai quattordici anni ai quaranta è possibile

frequentare il corso. Poi, tutto dipende dalla

capacità e dalla bravura del singolo nel

superare le varie categorie. Una cosa è certa:

tutti partono dallo stesso punto, ovvero il

settore giovanile, per poi approcciarsi alle

categorie maggiori. In generale, però, la

tempistica è comunque soggettiva.

D - Lasciando lo sport vero e proprio per un

attimo e concentrandoci sulla nostra regione

in generale, la domanda viene facile: per

quali aspetti, la Basilicata, è ancora in

fuorigioco”?

R - Va spesso in fuorigioco perché ancora non ha

una mentalità del tutto aperta su certi temi.

Tende a chiudersi, piuttosto che ad aprirsi,

piena com’è di opportunità e potenzialità.

D - Su cosa siamo ancora... “chiusi”?

R - Direi istruzione, trasporti, logistica. E poi i

collegamenti. Siamo ancora indietro rispetto

ad altre regioni, in termini di treni e aerei, e

questo certo non ci apre alle opportunità che si

potrebbero cogliere.

D - Lei lavora proprio nei trasporti: anche le

nostre strade non sono messe benissimo.

R - Beh, quello dipende un po’ anche dalla

morfologia del territorio, ma è il mio personale

pensiero.

D - A chi dare il cartellino giallo, o addirittura

rosso? Alla politica? Ai lucani stessi?

R - (Sorride). Non mi permetto di dare cartellini

rossi...

D - Almeno un giallo, su.

R - No, no, io faccio l’assistente. Sicuramente,

posso dire che abbiamo margini di

miglioramento, sotto tutti i punti di vista,

dal lato associativo- senz’altro- dal lato

politico e anche imprenditoriale. Qualcosa sta

sicuramente cambiando e stiamo progredendo,

ma si può fare meglio. Dal momento in cui

vedremo il successo di un’altra persona come

un’opportunità per tutta la collettività, e non

come un ostacolo, potremmo sicuramente

giovarne tutti.

D - Ecco, dopo il suo esordio in serie A, la

politica l’ha chiamata per complimentarsi?

Non so, ha ricevuto una targa...

R - Sì, assolutamente. Devo infatti ringraziare

sia il sindaco di Marsico Nuovo, Massimo

Macchia (che mi ha trasmesso la gioia di

tutta la comunità), sia il sindaco di Moliterno,

Antonio Rubino, che tra l’altro è un collega,

nominato da poco presidente degli arbitri

regionali. Mi sono stati vicino entrambi. Hanno

sentito come loro, anche, il raggiungimento del

mio traguardo. Ma anche la classe calcistica

lucana ha gioito di questo risultato.

D - Come presidente dell’Aia di Moliterno, cosa

possiamo dire del rapporto dell’Associazione

con le istituzioni e col territorio? Tutto bene

o qualcosa potrebbe andare meglio?

R - In questi tre anni di presidenza ho sempre

avuto il supporto delle istituzioni per le nostre

iniziative. Va detto, infatti, che noi ricopriamo

anche un ruolo sociale importante: i ragazzi

hanno realmente e concretamente la possibilità

di crescere come persone, di portarsi

l’esperienza arbitrale nella vita.

D - Se dovesse fare uno “spot”, rivolto a un

bambino o a un giovane, cosa direbbe a

proposito della carriera arbitrale?

R - Che ti fa crescere come persona, migliorando

le cosiddette “soft skills” da utilizzare anche

nella vita e nel lavoro.

D - E a lei, nella vita e nel lavoro, cos’ha dato

l’essere arbitro e assistente arbitrale?

R - Mi ha fatto maturare come persona, come

genitore e come sportivo a tutto tondo.

D - Le ha dato più autocontrollo?

R - Mi ha permesso di trovare la versione migliore

di me, anche se è un percorso in continua

evoluzione.

D - Il film, il libro e la canzone che la

rappresentano?

R - Il film “Inside Out”; la canzone “Vado al

massimo” di Vasco; il libro “Semplici strategie

per grandi miglioramenti”, della

bravissima

 

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di Walter De Stradis

 

 

Una volta la curva del Viviani gli dedicò uno striscione in cui si invocavano -anziché i soliti “11 Leoni”- “11 Nolè”. Oggi, a 40 anni, dopo una carriera notevole, arrivando a militare in serie B con Messina e Ternana (e, come ci racconterà, sfiorando anche la A), la seconda punta potentina, Angelo Raffaele Nolè, non sa ancora se continuerà a giocare nel suo Francavilla (serie D, in cui milita dal 2019), o se magari farà “il grande salto”.

d - Raffaele, noi la stiamo intervistando in un momento “di attesa” della sua carriera sportiva.

r - Sì, c’è questo bivio. Stiamo valutando con la società del Francavilla...c’è anche la possibilità di diventare allenatore della prima squadra.

d - Dunque lei ha già il patentino.

r - Sì, l’ho preso a Coverciano quattro anni fa.

d - Quindi, in ogni caso, non sarà un “ex” del calcio.

r - Sicuramente no.

d - Le faccio solo adesso la domanda iniziale: come giustifica la sua esistenza?

r - Col sacrificio. E col non accontentarsi mai. E’ stata questa la mia forza, che mi porto dietro sin da bambino. Ho iniziato a giocare, da solo con i grandi, a sedici anni, in Eccellenza con l’Asc Potenza (dopo il percorso nell’Asso Potenza e prima ancora nella vecchia “Paolo Ferri”).

d - Qual è stato il momento della sua vita in cui ha capito che avrebbe giocato a calcio per professione?

r - Non saprei, è stato un percorso naturale. Già a cinque/sei anni andavo alla scuola calcio, sicuramente ero già proiettato verso questo sport.

d - Tra l’altro lo sport è di casa: sua sorella Francesca è una nota pallavolista. Desumo che i vostri genitori vi abbiano sempre supportati, piuttosto che pretendere -che so- lauree in medicina a tutti i costi.

r - Non si sono mai intromessi, spingendoci casomai a fare con serenità ciò che ci piaceva e ci rendeva felici. Anzi, direi che il problema di oggi è la troppa ambizione e le troppe pressioni che alcuni genitori infondono nei loro figli, aspettandosi che diventino subito come Cristiano Ronaldo.

d - Immagino parli con cognizione di causa.

r - A Coverciano qualcuno ci disse: “Se aprite una scuola calcio, appendente subito uno striscione con la scritta: NON VOGLIAMO I GENITORI”.

d - Addirittura.

r - Eh, sì, se il bambino vede i genitori sugli spalti che lo incitano o lo rimproverano, beh, gli viene l’ansia. E tutto ciò crea difficoltà anche al mister.

d - Vanno a rompere le scatole pure a lui.

r - Ripeto, è un problema che sta avendo questa generazione.

d - Immagino che a Coverciano abbia conosciuto ex calciatori molto famosi.

r - Mi sono ritrovato, da tifoso juventino, con uno dei miei giocatori preferiti, Barzagli, un vero combattente. Ma c’era anche Sorrentino...eravamo un gruppo di sessanta, tutti provenienti da serie B e serie A.

d - Da questi grossi personaggi c’è sempre e comunque da imparare, o magari a volte si riamane delusi?

r - Un po’ e un po’. Di alcuni di loro ti accorgi subito che sono portati per la carriera di allenatore o di dirigente; di alcuni altri ti rendi conto che sono arrivati lì... con un pizzico di fortuna.

d - Il famoso fattore “C”. Lei è soddisfatto della sua carriera?

r - Molto. Perché sono partito dalle “parti basse”, dall’Eccellenza, e sono salito di categoria, ma non grazie al supporto di qualche procuratore, bensì vincendo i campionati: prima l’Eccellenza, poi la D, poi la C2 (la famosa partita col Benevento) e poi ancora la C1 (con la Ternana). Sono infine arrivato in serie B, ma mi è mancato quel piccolo “gradino” finale per salire ancora. E qui c’è un po’ di rammarico, perché mi sono infortunato nel mio momento più bello: avevo ventisette anni, l’età della maturità, e avevo già quasi firmato il contratto col Parma, in serie A. E invece il 26 dicembre mi ruppi il crociato a Padova, in serie B. Tutto sfumato.

d - Come si fa a risalire dopo una grande delusione del genere?

r - E’ stato un momento difficile, perché calcisticamente ero al mio apice (da poco il mister mi aveva dato anche la fascia di capitano). Però, come dicevo, sono uno nato “dal basso”, mi sono fatto da solo, e ho continuato a crederci, col sacrificio.

d - Lei ha sottinteso che i procuratori possono favorire anche le carriere di giocatori mediocri.

r - Beh, sa, un procuratore importante ha un gruppo di giocatori, in cui ci sono di solito alcuni calciatori di fama. E quindi conosce direttori importanti, coi quali a loro volta si consigliano i dirigenti delle squadre minori. Accade quindi che un procuratore del genere “piazzi” un giocatore importate in una squadra, “abbinandogli” anche qualcheduno meno bravo, suggerito sempre da lui. Quel pizzico di fortuna, poi, come dicevo, fa il resto.

d - E qui, nella sua città, ritiene di aver dato tutto quello che poteva o si aspettava di dare?

r - Io iniziai con l’Asc Potenza, che poi si fuse con l’Fc Potenza. Facemmo tre anni in serie C2, vincendo infine il campionato (poi fui acquistato dal Rimini). Direi che il mio sogno si è realizzato, dal momento che ogni bambino sogna di giocare nel Potenza e di vincerci qualcosa. E mi porterò sempre dietro una cosa: la curva rossoblu, che per sua scelta non ha mai tifato il singolo, quanto l’intera squadra, mi dedicò uno striscione gigantesco, con la scritta: VOGLIAMO 11 NOLE’.

d - Tra l’altro “Nolè” è quasi l’anagramma di “Leone”.

r - (ride) E’ vero!

d - Qualcuno di quella curva è diventato anche sindaco, assessore. E’ contento di questo?

r - (sorride) Certo, mi ha fatto piacere.

d - Lo ha anche votato?

r - (ride). In quel periodo ero fuori, non avevo modo.

d - Negli ultimi tempi è approdato a Francavilla. Abita anche lì?

r - Sì, mi portai la famiglia durante il Covid. Poi mia figlia ha iniziato la scuola, e quindi, anche per fare contenta lei che si è fatta gli amici, sono rimasto lì.

d - Lei è tornato nella sua regione solo da qualche anno, dopo essere stato fuori per molto tempo: come ha trovato Potenza?

r - Dispiace vedere tanti giovani che vanno via. Così si perde un po’ di “anima”. Tuttavia rimango fiducioso e confido che si punti su di loro.

d - Potenza è stata Città Europea dello Sport, ma non se n’è accorto nessuno, anche a causa della pandemia. Come siamo messi a strutture sportive?

r - Ho avuto la fortuna di giare un po’, e devo dirlo: siamo abbastanza indietro rispetto ad altre città. Se non escono fuori tanti atleti di talento è anche per quello: non sono messi in condizione di migliorare. E qui da noi è difficile: una volta c’è l’infiltrazione nel palazzetto, una volta manca l’acqua da un’altra parte, una volta è la mancanza di campi di calcio...In altre città non succede: si trova subito l’alternativa o la soluzione. Sono molto più avanti rispetto a noi.

d - Spostiamoci sulla Nazionale, che ha fatto una figura tremenda agli Europei di calcio. Cos’è successo?

r - Mi ha colpito la totale assenza di cattiveria agonistica, da parte di giocatori giovani che stavano vivendo un’occasione più unica che rara. Mi è molto dispiaciuto. Non penso si sia trattato di paura (dopotutto giocavamo con la Svizzera, con tutto il rispetto). Forse il problema è generazionale: coi giovani di oggi sembra che tutto sia loro dovuto, non hanno quella voglia di conquistarsi qualcosa.

d - Da cosa bisogna ripartire per salvare il calcio italiano?

r - Cercando di eliminare l’obbligo dei giovani in campo. Prima il posto bisognava conquistarselo, mentre adesso -grazie a questa norma- si sentono già appagati, col posto assicurato e meno disposti a migliorare in allenamento. E anche il loro comportamento negli spogliatoi ne risente, in quanto si sentono protetti dalle società.

d - Non c’è anche un problema di troppi giocatori stranieri nei campionati?

r - Guardi, purtroppo devo riconoscere che hanno più “fame” di noi. Andando in giro, non vedo più i ragazzini giocare nei parchi; si accontentano di quell’oretta di scuola calcio. Una volta, invece, si migliorava tantissimo, proprio perché, giocando anche in mezzo alla strada, toccavi il pallone cinque/seimila volte in più, e miglioravi in ogni aspetto. Persino la prospettiva di vincere un gelato ti faceva migliorare nella “cattiveria”. Tutto ciò è sfumato, ecco perché non escono più talenti. Altrove, invece, è diverso.

d - Il film che la rappresenta?

r - “Quasi amici”, perché mi reputo un buono e cerco di aiutare sempre il prossimo, senza aspettarmi niente.

d - La canzone?

r - Vasco Rossi, ma non saprei sceglierne una in particolare.

d - Il Libro?

r - Confesso che non leggo tanto. Mi coglie spiazzato (ride).

d - Spesso i suoi colleghi si salvano in calcio d’angolo, citandomi la biografia di un calciatore.

r - (Risate). Beh, sì, non volevo dirlo.

d - La vita di un calciatore che l’ha colpita?

r - Quella di Cristiano Ronaldo, perchè si è costruito ed è stato costante.

 

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di Walter De Stradis

C

i troviamo in una location particolare, certamente insolita per la rubrica “Indovina chi viene a pranzo”, all’interno del parco Baden Powell di Potenza circondati, comunque, da una vetrina di prodotti tipici della nostra terra. Il contesto concettuale, inoltre, è cruciale: Coldiretti Basilicata si è unito infatti alla lotta contro la violenza sulle donne attraverso il progetto nazionale di beneficenza e sensibilizzazione “Coltiviamo il rispetto”. Per l’occasione dunque, presso il mercato di Campagna Amica all’interno del parco, si tiene un’iniziativa organizzata assieme a Coldiretti Donne Impresa e a Magazzini Sociali. Intervengono, oltre ai vertici regionali e provinciali dell’organizzazione agricola lucana, anche il comandante della polizia locale del capoluogo, Maria Santoro, la fondatrice di “Non sei sola Potenza” e la direttrice di Magazzini sociali, Valentina Loponte. Ospite della manifestazione, proprio Terryana D’Onofrio, campionessa europea di karate, vincitrice del bronzo individuale e dell’oro a squadra ai Campionati Mondiali di Karate. Originaria di Sant’Arcangelo, è un’atleta che si è fatta testimonial di un tipo di sport in cui è soprattutto il muscolo “mentale” quello che ne trae maggiore beneficio.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Credo di essere una persona normalissima, anche se la Regione mi ritiene un’eccellenza in virtù del mio percorso sportivo, nonostante ciò continuo a conservare la mia umiltà.

d - ...È difficile conservare l’umiltà quando si raggiungono determinati traguardi e si iniziano a conoscere personaggi importanti che gravitano nell’ambiente?

r - Certamente, il rischio c’è, ma tutto dipende da come si è cresciuti. Io mi ritengo molto fortunata, anche perché sono nata in una famiglia che mi ha trasmesso specifici valori. Per raggiungere determinati risultati, prima di tutto bisogna volare basso.

d - Mi pare di aver letto in una delle sue interviste che lei ha appreso i rudimenti del Karate proprio tra le mura domestiche.

r - Mio padre è anche il mio allenatore. Tempo fa ha aperto una palestra di Karate proprio a Sant’Arcangelo, che ho iniziato a frequentare per gioco, poi pian piano è diventata una vera e propria sfida che mi ha condotta fino alla nazionale.

d - Qual è stato il primo insegnamento di suo padre?

r - Ero molto giovane, sì e no avevo due anni, diciamo che ho iniziato a gattonare in palestra. Certamente il primo valore che mi è stato trasmesso è il rispetto verso il Tatami e, soprattutto, nei riguardi dell’avversario. È chiaro, poi, che sulla base di tali dettami ci sia stata successivamente anche una evoluzione caratteriale.

d - Quando si pensa alle arti marziali vengono subito in mente i requisiti fisici dell’atleta che le interpreta, ma è altrettanto vero che le stesse infondono molto al livello mentale

r - Per chi non lo conosce bene, il Karate è un’arte davvero difficile da praticare. Emotivamente trasmette una gamma di emozioni che possono tornare utili nella vita reale, anche perché è uno sport di difesa e non di attacco. Per una donna, poi, saper gestire delle situazioni di difficoltà non è certo cosa da poco.

d - Lei lavora con le forze dell’ordine. In che modo il Karate può essere utile per tutelare la donna in una realtà nella quale purtroppo si registrano sempre più casi di violenza?

r - Purtroppo è un fenomeno con il quale ci confrontiamo quotidianamente e il Karate può rappresentare ed essere utilizzato come mezzo di contrasto. È vero, nessuno diventa una eroina con la pratica del Karate, io stesso non mi sento tale, ma ho sviluppato nel tempo un’abilità intellettiva, una maggiore sicurezza nella gestione di determinate situazioni. Sicuramente la pratica di questa disciplina può regalare maggiore tranquillità e potenzialità intellettiva (nella gestione di talune circostanze) a una donna.

d - Serena Lamastra, altra campionessa di arti marziali, in una recente intervista a noi rilasciata sosteneva che le stesse arti marziali possono e devono insegnare anzitutto ad una donna a sottrarsi alla violenza, anche perché sussiste un divario fisico rispetto all’uomo, che rende davvero difficile pensare di poterlo sopraffare pienamente in caso di attacco. Lei è d’accordo?

r - L’uomo è dotato fisiologicamente di maggiore forza fisica, ma non certo di maggiore forza mentale. Quindi, se di “sesso debole” si può parlare in questo caso, a mio modo di vedere, tale appellativo –da questo punto di vista- deve essere riferito agli uomini. Come dicevo, queste discipline possono rivelarsi sicuramente utili, ma non bisogna perdere mai la lucidità in certe situazioni. Sarei ipocrita a dire che una donna possa sopraffare fisicamente un uomo; siamo state create per sopportare maggiore dolore (in senso positivo, pensiamo al parto, un dono del Signore), ma ciò non deve servire come scusante agli uomini stessi per contrastare una donna. Trovare un punto d’incontro sicuramente porta a frutti più sani.

d - Quando c’è un lucano che ce la fa, a prescindere dai settori, viene subito da chiedersi: è stato difficile partire dalla Basilicata?

r - Direi proprio di sì. La Basilicata è ancora un passo indietro dal punto di vista dell’impiantistica sportiva, ma allo stesso tempo è ricca di talenti, e non solo in ambito sportivo. Ho incontrato molte difficoltà, per tornare alla sua domanda, anche perché mi sono dovuta spostare. So che ci sono alla base dei progetti che la Regione sta promuovendo e mi farebbe tanto piacere se i giovani potessero investire le proprie energie nel territorio.

d - Da lucana che ormai vive fuori e rientra di tanto in tanto, cos’è che la fa più arrabbiare? Quali sono le cose che proprio non vanno?

r - Non ho mai provato rancore verso la mia terra. Quando rientro cerco sempre di guardare il lato positivo. Anche se ho superato degli ostacoli, non è detto che anche gli altri debbano affrontarli. Se posso essere uno stimolo a migliorare lo stato attuale delle cose, ben venga, magari con il tempo possono migliorare.

d - Il libro?

r - S’intitola “Il ritorno del campione” e parla di come rialzarsi dopo una sconfitta.

d - Canzone e film?

r - Dipende un po’ dal periodo, non me la sento di citare un titolo specifico per l’uno e per l’altro, anche perché dietro c’è sempre una produzione artistica e un significato.

 

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E' alta, si muove e si esprime con garbo e l'assenza di inflessioni tradisce gli anni trascorsi altrove, in diverse città d'Italia. Nativa di Baragiano (Pz), ove è tornata a vivere da una decina d'anni, Carmela “Carmen” Summa è stata una calciatrice di successo ieri, mentre oggi, con altrettanto profitto, è CT della rappresentativa regionale della Lega Nazionale Dilettanti, nonché tecnico del settore giovanile del Marmo Platano, nel ruolo di preparatore atletico e collaboratrice del mister.

D - Oggi si parla molto di “stereotipi di genere”, ma non mi è difficile immaginare la situazione di una ragazzina lucana che negli anni Settanta si decide a entrare nel mondo del Calcio.

R - Sicuramente ho dovuto affrontare tutta una serie di stereotipi che possono esserci in un percorso di vita. Sono nata a Baragiano, un paese piccolissimo dal quale sono andata via nel 1976, e ho iniziato a giocare a pallone con i ragazzini. Allora le scuole calcio erano per strada. Ricordo le partitelle nelle piazze del mio paese, ho imparato molto da quei bambini. E così, una mia professoressa delle medie, che mi vedeva molto intraprendente e determinata, un giorno mi propose di andare a giocare nel Potenza femminile. Avevo undici anni e mezzo. Di lì è iniziato tutto: ho giocato nella Salernitana in serie A, poi sono stata a Catania (dove vincemmo quattro scudetti), Lecce, Verona, Modena; ho militato nel Milan, un anno a Napoli, e undici alla Reggiana. Ho giocato 520 partite in serie A e vinto sei scudetti.

D - Lei ha parlato di stereotipi e difficoltà...per esempio, come accolsero in casa sua la volontà di fare la calciatrice professionista?

R - Io sono stata molto etichettata, perché, come figura femminile, c'erano naturalmente dei “canoni” prestabiliti da seguire. Per quanto riguarda la mia famiglia, mio padre è stato molto molto più aperto rispetto a mia madre. Sa, si temeva moltissimo il giudizio dell'ambiente. Ricordo che mia madre, quando mi vide giocare con i ragazzini, mi disse “Tu sei una donna, certe cose non le devi fare. Tra l'altro vivi in un paesino in cui le persone queste cose non le condividono”. E io già allora difendevo la mia scelta. Sì, ho dovuto superare diversi ostacoli a livello psicologico, e non nascondo che andarmene a quindici anni a Salerno (per militare nella Salernitana) per me fu un vero punto di partenza, perché lì mi sono costruita come giocatrice e come donna.

D - A pochi chilometri di distanza, a Salerno, era già così diversa la mentalità?

R - Certo, molto diversa, parliamo del 1976/77. Oltretutto ebbi la fortuna di finire in una società sportiva già abbastanza organizzata, con delle figure che ci seguivano. Di mio, poi, ero una giocatrice molto forte...

D - Lei giocava in difesa.

R - Esterno basso, e all'occorrenza esterno alto.

D - Voi giocatrici di successo, di calcio femminile, che facevate sacrifici quanto e più degli uomini, avvertivate mai la sensazione di essere bistrattate, in fatto di media, rispetto ai più famosi colleghi maschili?

R - Certo che c'era un po' di frustrazione, ma più che altro perché le persone che circondavano l'ambiente del calcio femminile non erano mentalmente e culturalmente aperte. Ricordo che quando col Potenza femminile giocavamo al Viviani (erano i tempi di mister Mancinelli), venivano in tanti a vederci, ma soprattutto per guardare me in azione (ero diversa dalle altre, sapendo già muovermi bene). Ricordo ancora i commenti, ma accadeva anche a Salerno. Oggi qualcosa è cambiato in meglio, ma allora si andava a quelle partite per vedere le gambe delle ragazze, le magliette aderenti al seno, per queste piccole banalità, chiamiamole così. Certo, se vogliamo paragonare il calcio maschile a quello femminile, è ovvio che a livello di struttura fisica, di potenza, di resistenza, di contrasto etc., delle differenze ci sono, ma tecnicamente non abbiamo nulla da invidiare.

D - In Basilicata c'è una realtà viva di calcio femminile? Ci sono molte ragazze che vi si avvicinano, o c'è ancora qualche tipo di remora?

R - Da qualche anno in Basilicata è cambiato l'approccio verso il calcio femminile: c'è il Potenza femminile (che si chiama Seventeen), ma anche lo stesso Avigliano, così come il Viggiano, parliamo di società che hanno una struttura, una scuola calcio, un vivaio, e che quindi fanno tutto un lavoro di programmazione. Quando ho iniziato io tutte queste cose non esistevano. Oggi invece, in virtù di quelle opportunità che descrivevo poc'anzi, il calcio femminile ha avuto occasione di acquisire credibilità rispetto a chi gli si avvicina.

D - Una domanda da vero ignorante in materia: un'allenatrice può guidare una squadra di calcio maschile?

R - Certamente. Io ho il patentino “Uefa C” e ho allenato il Baragiano Calcio maschile in prima categoria e ho seguito il settore giovanile a Picerno.

D -...e un giocatore di sesso maschile, gli ordini da una donna, li prende meno volentieri?

R - Le faccio un esempio molto recente. Io collaboro col Marmo Platano, il cui mister è Donato Troiano; i primi tempi, da questi ragazzini di quattordici/quindici anni, mi sentivo...come dire...osservata. Poi, come in tutte le cose, scatta un qualcosa a livello di ascolto, specie quando tu parli in modo semplice e lineare e dimostri di avere una leadership, e nello specifico sai spiegare a questi ragazzi il modo di stare in campo, la postura, il modo di correre, di difendere la palla. E i ragazzi cambiano completamente opinione.

D - Cioè quando capiscono che lei se ne intende per davvero.

R - Certo. Pero è chiaro che, specialmente all'inizio, c'è un discorso di preclusione e diffidenza nei confronti di una donna. Ma poi, come dicevo, cambiano idea. Parlo per me, almeno.

D - Spostiamoci allora proprio sul calcio maschile e sui “dolori” del Potenza. Cos'è andato storto secondo lei?

R - Se posso permettermi di esprimere un giudizio, beh,...il presidente Macchia è sicuramente un tifoso del Potenza... ma quello del calcio spesse volte è un mondo “attrattivo”, e bisogna avere la competenza di sapersi scegliere delle figure che abbiano anch'esse delle competenze. A volte invece si fanno delle valutazioni diverse, che hanno maggiormente a che fare col sistema calcio, ma che tuttavia si ripercuotono su quella mentalità che dovrebbe essere vincente, e che poi non è in grado di costruire qualcosa di valido. Lo stesso Potenza quest'anno ha cambiato quattro allenatori; avrà avuto i suoi buoni motivi, per carità, ma io-presidente mi porrei il problema del perché. Forse una campagna acquisti sbagliata, lo spogliatoio...quel che è certo è che la città capoluogo meriterebbe tranquillamente di fare calcio ad alti livelli.

D - Le posso chiedere un pronostico? Il Potenza si salverà?

R - A mio avviso il Potenza si è messo in una situazione molto particolare, e beh, trattandosi di partite secche, tutto può succedere. Molto dipende da come uno affronta certe situazioni, certo è che tre mesi fa tutto pensavo tranne che il Potenza avrebbe fatto i play out. Secondo me, si sono venute a creare tutta una serie di situazioni tanto nello spogliatoio quanto a livello tecnico. Qualcosa non ha funzionato. Fermo restando che i giocatori dovrebbero sempre onorare la maglia e farlo alla grande.

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Un tripudio di bandierine tricolore sventolate da oltre 3000 studenti della provincia, hanno ridato nuova vita ad un Viviani che da tempo non si riempiva di un entusiasmo così tanto contagioso. Nella mattinata di giovedì, nello stadio del capoluogo, di scena la nazionale Italia under 18 che ha sfidato in amichevole, i pari età della Romania. La gara conclusasi per 3-1 in favore degli azzurrini, si replicherà domenica sul verde del Curcio di Picerno. Grande soddisfazione anche da parte del Presidente Gravina, ospitato al Viviani lo scorso novembre da patrono Macchia, che ha potuto verificare le condizioni per ospitare in Basilicata, gare di caratura nazionale. “L’entusiasmo e la passione per il calcio della città di Potenza e di tutta la Basilicata sono straordinari – ha dichiarato il Presidente della FIGC Gabriele Gravina – gli azzurrini si sono immersi in un vero e proprio bagno di folla, che ha esaltato i valori dello sport che più amiamo legandoli alla partecipazione del territorio. Ringrazio tutti i tifosi per l’affetto verso la maglia Azzurra e la società potentina per l’ottima organizzazione. Torneremo sicuramente nel capoluogo lucano con altri eventi di caratura internazionale”. Dalla società rossoblu: “Una festa della Basilicata. L’entusiasmo dell’intera comunità regionale con la partecipazione di scuole, diversamente abili e circa un centinaio di delegazioni comunali, ha spinto l’Italia alla vittoria. Un sogno che si realizza, fortemente voluto e curato nei minimi dettagli dal Potenza Calcio e che ha colto in pieno l’obiettivo della FIGC di abbracciare il tifo autentico di provincia ad iniziare dai più giovani”. E’ quanto hanno dichiarato il presidente ed il vice presidente rossoblù, Donato Macchia e Angelo Chiorazzo, a margine della prima amichevole. “La società – hanno evidenziato – aveva promesso di coinvolgere il territorio. L’entusiasmo spontaneo e vivo sugli spalti, che ha toccato le 5 mila presenze, è stato determinante per una cornice davvero fantastica per i colori azzurri. Ringraziamo il presidente Gabriele Gravina ed il responsabile legislativo federale, avvocato Giancarlo Viglione”.

Ant. Sab.

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