- Redazione
- Sabato, 22 Febbraio 2020 08:56
Cari Contro-Lettori,
riprendendo, dal numero scorso, il discorso sullo spopolamento, tocca segnalare che insieme al Molise, la Basilicata è la regione che nel 2019 ha avuto la più alta emorragia di abitanti: l’1% in meno. L’aridità della percentuale, è ingannevole, o meglio, fuorviante. Dietro quel numeretto apparentemente trascurabile a una lettura svogliata, si nasconde un vero dramma, ovvero «I vicoli che muoiono, queste botteghe che chiudono, i paesi che scompaiono lentamente», per mutuare le parole di Pietro Cirillo da Tricarico, cantautore lucano di musica popolare che abbiamo intervistato a pranzo.
Dagli esperti ci è stato spiegato che su quel dato maledetto pesa il bilancio in negativo del rapporto morti-nascite, la corposa emigrazione verso altre regioni (con meno 5,5 per mille residenti, solo in Calabria sono messi peggio di noi) e il non esaustivo ricambio offerto dal numero di migranti in entrata. Infatti, la Basilicata è anche la terra che perde più “Italiani” (-11,3 per mille abitanti).
In totale, i lucani “spariti” dal 2002 sono ben oltre 30mila.
Ci è stato spiegato, che questi numeri si potrebbero materializzare con l’immagine della piazza di un paese che di tanto in tanto –puff- svanisce in una nuvoletta (la piazza nostrana è anche un luogo metafisico che ospita, per citare ancora Cirillo, «chi ha il coraggio di esistere e resistere nella propria terra, a guardare gli anziani che passeggiano, come se fossero di un altro mondo e di un altro tempo»).
Tutto vero.
Ma una piazza lucana, in questa regione sempre più feudo campano, svanisce ogni qual volta si rinuncia ai sogni, accontentandosi della più pragmatica convenienza insita nello stringere la mano a quel potente che ti nominerà suo portaborse o portavoce o quel che è (leggasi polemiche, su più fronti istituzionali, degli ultimi tempi); svanisce ogni qual volta consentiamo al politico di turno di elargire promesse sfacciate di cambiamento, o di rivoluzione, senza poi chiedergli conto della frustrante, immutabile e gattopardesca realtà alla quale ci ritroviamo sottoposti; svanisce, per citare anche l’ultimo libro dello scrittore e antropologo bernaldese Giuseppe Melillo, quando non resta che l’amara consolazione/rassegnazione esistenziale dell’affidarsi al vecchio motto nostrano, secondo il quale “Mondo è stato e Mondo sarà”. Melillo ci ha spiegato che –per la precisione- in dialetto si dovrebbe dire qualcosa come «Munn è stat e Munn JE’», dato che è dal 1600 che nel vocabolario dei nostri paesi non si coniuga più al futuro. In pratica, sono circa 400 anni che ce lo hanno rubato.
Così è, se vi pare.