- Redazione
- Sabato, 15 Febbraio 2025 07:53
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di Walter De Stradis
L’aviglianese Donato Verrastro, cinquantaseienne a cui daresti almeno dieci primavere di meno, è un accademico e intellettuale lucano di razza: docente di storia contemporanea all’Unibas (ove, da qualche settimana, è anche pro-rettore al “public engagement”), è anche direttore del Centro Studi Internazionali “Emilio Colombo”e presidente della fondazione “Emanuele Gianturco” di Avigliano (Pz).
Il centro studi “Emilio Colombo”, in particolare, è una delle tre direzioni interne al Centro di Geomorfologia integrata dell’area del Mediterraneo di Potenza; un centro che lo stesso Colombo contribuì a far nascere, a margine del terremoto del 1980.
d- Colombo, in Basilicata, è un po’ sinonimo di “Prima Repubblica”, con tutte le luci e le ombre che questo può comportare. Con quale scopo è sorto il centro studi a lui dedicato?
r - Il centro studi nacque quasi un decennio fa, ormai, con lo scopo di mettere insieme una serie di documentazioni, archivi e testimonianze legati alla sua attività; il tutto, a valle di un progetto pensato una prima volta quando lui era ancora in vita, e poi bloccatosi dopo la sua morte: un lungo documentario sulla sua carriera politico-istituzionale, divenuto poi un documento, disponibile online, intitolato “Emilio Colombo, memorie di un Presidente”. Tutto questo materiale è poi confluito in un volume, edito da Laterza (“Emilio Colombo, l’ultimo dei costituenti”), in cui la sua testimonianza diventa una fonte storica, ovviamente filtrata dalla sua personale prospettiva. Oggi il Centro studi custodisce le fonti della sua attività istituzionale, e anche il relativo patrimonio fotografico donato dalla famiglia (tutto digitalizzato e disponibile online).
d- In un momento storico come questo, in cui c’è un grande scollamento fra cittadino e istituzioni (nell’ottica della partecipazione al voto), in che modo Colombo può rappresentare “un’altra epoca” per la Basilicata?
r - Rappresenta “un’altra epoca” sicuramente. La percezione collettiva ha posto uno “stigma negativo” sulla Prima Repubblica, letta come logica del consociativismo, del compromesso, del clientelismo. Ormai l’interpretazione storiografica, però, è cambiata, anche in virtù della distanza temporale che ci ha consentito di maturare un pensiero critico. E’ quella una stagione con diverse ombre, ma sicuramente con tantissime luci. Intanto, è la storia e l’esperienza di una classe dirigente e di una politica (cui Colombo è sicuramente ascrivibile) che guarda alla realtà del territorio, di cui ne è anche espressione. E’ dunque una prassi politica, che è anche di tipo clientelare (fenomeno esistente ancora oggi), ma mossa da una classe dirigente che ha comunque ricostruito il Paese dopo la Seconda guerra mondiale. Un Paese in macerie, ma ancora tutto da fondare, dopo la caduta del fascismo (non avendo noi tradizione repubblicana). E così, nel giro di dieci/quindici anni, l’Italia passa da Paese sconfitto e distrutto dai bombardamenti, a protagonista del boom economico degli anni Cinquanta, diventando una delle Potenze più industrializzate del mondo.
d- Però quello è lo stesso periodo in cui si acuisce la Questione Meridionale.
r - In realtà si parlava di “Questione Meridionale” già alla fine dell’Ottocento.
d- Con l’industrializzazione, il “gap” Nord-Sud comincia a farsi marcato.
r - Sì, se facciamo, ad oggi, un bilancio di ciò che è accaduto; ma da storici dobbiamo contestualizzare i processi. E qual è la progettualità politica che osserviamo negli anni Cinquanta/Sessanta? Al di là degli esiti, registriamo una classe politica che GUARDA al Mezzogiorno, nell’ottica della risoluzione della “Questione Meridionale” di cui si parlava da troppo tempo, ma che il fascismo aveva completamente cancellato dall’agenda politica. Di Colombo e degli altri protagonisti di quella storia si dice sempre che realizzavano le opere “per dare soddisfazione all’elettorato”...
d-...ancora oggi, nei paesi, si ricorda che “Colombo fece le strade”...
r -...sì, ma la lettura equivoca che si dà di quella storia, consiste nel considerarla strettamente circoscritta al locale (penso alla Valbasento, alla Basentana, alle aree industriali, tra alterne fortune). Con gli studi effettuati, ci rendiamo conto, invece, che quei protagonisti non miravano mai esclusivamente allo sviluppo locale (che indubbiamente portava voti), e che tutti quei progetti rientravano sempre in una logica più ampia, ovvero quella del Mezzogiorno.
d- Oggi questa visione è rimasta in qualche modo?
r - Purtroppo no, non c’è una strategia di stampo meridionalista. Ci sono logiche di piccolo cabotaggio, anche se è chiaro che il Paese nel frattempo è completamente cambiato. All’epoca non c’erano le Regioni, non c’era una istituzione intermedia, che ha grande potere.
d- C’è oggi chi suggerisce addirittura di abolirle, le Regioni.
r - Diciamo che gli enti-Regione non hanno portato i risultati sperati. Le Province, invece, funzionano molto meglio, davvero incarnavano l’istituzione intermedia tra lo Stato e le comunità.
d- Il problema delle Regioni qual è? Troppe risorse? Troppo potere? Troppo poco?
r - No, il potere c’è. Il limite è la connessione di quel potere, nel bene e nel male (si pensi al vanto che ne fanno al Nord) con una grande autonomia in determinate materie, che molto spesso sono ostaggio delle politiche eccessivamente locali e che quindi si sganciano da una visione di carattere nazionale
d- Intanto lo Svimez ci dice che le Regioni, qui al Sud, sono un passo indietro, rispetto ai comuni, nella spesa e “cantierizzazione” dei fondi Pnrr.
r - C’è infatti anche un problema di performance e di efficienza. La Basilicata, fino a quindici/vent’anni fa, si distingueva positivamente in tema di fondi europei, per capacità di intercettazione, drenaggio e investimento E’ un problema di classe dirigente. Un ultimo passaggio: a mancare è la mediazione dei partiti, a partire dagli anni Novanta...
d-...oggi ci sono solo gruppi di potere?
r - La dinamica dei partiti è prevista dalla Costituzione, non dimentichiamolo. Erano quelli i contesti in cui si allenavano i futuri membri della classe dirigente, si alimentava il dibattito. Venendo meno questi corpi di mediazione (oggi i partiti sono tutt’altra cosa), si è aperto il varco a logiche un po’ più compromesse con le dinamiche eccessivamente locali.
d- Lei prima diceva che il clientelismo c’è ancora oggi. Tempo fa lessi un libro in cui si riportava che alcuni neo-assunti nelle industrie della Valbasento, avevano ricevuto una lettera, a firma di Emilio Colombo, in cui questi sottolineava “l’intercessione” fatta. In che modo il clientelismo di oggi è diverso, se lo è, da quello di allora?
r - Torno ancora alla “transizione” degli anni Novanta (Tangentopoli), che ha aperto una diversa prospettiva interpretativa sulla gestione della politica: noi oggi troviamo questi biglietti nelle carte di archivio, le segnalazioni che arrivavano agli enti (che non erano solo di Colombo), e ci scandalizziamo. Tuttavia “la segnalazione” all’epoca era all’interno di un sistema di “attenzionamento” delle esigenze (e non parlo della questione etica, perché è evidente che la meritocrazia non sempre veniva rispettata). Ma per certi versi era un sistema “trasparente”: il politico di oggi non ci penserebbe neppure a inviare un biglietto del genere. Ma ciò che noi ritroviamo oggi tra le carte è comunque il segno di una “politica di prossimità” che guardava comunque alle necessità. E molto spesso si interveniva a supporto di emergenze vere. Gli aneddoti raccontano che su dieci assunzioni, probabilmente, tre potevano anche essere mediocri, ma sette dovevano essere necessariamente di qualità (cioè reclutando i migliori, anche attraverso un sistema rigoroso di selezione, e mettendoci la faccia).
d- Oggi non siamo sicuri che quella “percentuale” venga rispettata.
r - Esatto.
d- Un ultima domanda: perchè Colombo, pur partendo da una regione come la Basilicata (all’epoca ancora più “minuscola”), è riuscito a diventare Colombo? C’è, secondo lei, un suo possibile “erede” politico in circolazione?
r - E’ impensabile che la Storia possa ripetersi allo stesso modo e riproporre modelli politici del passato. Colombo arriva alla politica attraverso la filiera cattolica (e tra l’altro inizialmente pensa a una carriera universitaria). E, tra i “reclutati” di quelle giovani risorse, neanche ventiseienne, viene gettato nella campagna elettorale dell’Assemblea Costituente. Parliamo di un contesto e di una storia che non ha eguali con quelli di oggi, ma c’è un passaggio importante: nel suo ultimo intervento alla commissioni riunite Camera-Senato per gli esteri, si prefigurò la Brexit (che ancora non era neanche ventilata), aprendo anche uno squarcio sulla questione Mediorientale. Questo per dire che dobbiamo astrarre quelle esperienze, anche dal pregiudizio locale, perché nessun politico esce vincente dall’analisi dell’impegno locale, ove ci sono commistioni troppo forti. Certe cose vanno lette anche in una prospettiva nazionale. E’ ciò che fa la differenza tra uno statista e un politico: la capacità di visione, di lettura, ma anche la solitudine -molta- nella responsabilità delle scelte. C’è infatti un Colombo privato che ci parla del peso dell’assunzione della responsabilità e della solitudine delle scelte. E tenga conto che quella forza di decidere è una qualità che non sempre i politici hanno.Indpov