di Walter De Stradis

 

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Da marzo scorso, Maria Antonietta Santoro, chef del “Becco della Civetta” a Castelmezzano (Pz), è diventata l’unica donna ad aver conseguito l’ambito titolo di “Ambasciatore del gusto” della nostra regione. Alla soglia di sessant’anni -che dire splendidamente portati è poco (e c’è un motivo ben preciso, come vedremo)- nonostante gli studi in Giurisprudenza, Maria Antonietta è chiaramente un libero docente di legge, sì, ma del Sapore. E del Sapere.

d: Come giustifica la sua esistenza?

r: Esserci per me significa portare avanti un discorso relativo a un territorio, un tempo sconosciuto, oggi sempre più apprezzato. Il che comporta essere custode “di saperi e sapori” di questa terra.

d: Come si può raccontare una terra attraverso il cibo?

r: Attraverso la memoria. Se si vuole guardare al futuro, bisogna guardare anche al passato. La cucina è evoluzione. La cucina della nonna è superata perché oggi siamo tutti un po’ più “acciaccati”: mia nonna usava lo strutto, perché prima si lavorava tanto e si smaltiva, mentre oggi usiamo l’olio extravergine di oliva, per esempio.

d: La tradizione è comunque il punto di partenza.

r: Certo. Cinquant’anni fa avevamo una masseria, ove si cucinava per almeno venti/trenta persone al giorno. Si cucinava ciò che si aveva al momento (oggi pomodori, domani peperoni, l’agnello…), anche se ricotta e formaggio c’erano sempre, avendo gli animali. Era una sorta di economia autarchica, ove tutto serviva al mantenimento della famiglia.

d: A molti però non piace la definizione di cucina lucana come “cucina povera”.

r: Infatti non lo è assolutamente, è una cucina molto ricca, in questa terra abbiamo tutto. Anzi, mai come oggi io la definisco “attuale”. Faccio un esempio, uno dei miei piatti è molto antico: fave e cicorie (ne parlava addirittura Aristofane), ma oggi viviamo in un mondo in cui questo genere di cibi è stato riscoperto. Tenga conto inoltre che le erbe prolungano la giovinezza, la mia “farmacia” è infatti di là. Io raccolgo e mangio, sono seguace di Santa Ildegarda di Bingen. Grazie al nostro sole, inoltre, abbiamo i pomodori e possiamo fare le conserve (da cui nasce tutto il discorso della pasta al ragù); ma in questi posti, ove si tramanda ancora la tradizione del maiale, ognuno ha in casa la propria “riserva” (il vaso con la salsiccia). Ricordiamo inoltre la carne podolica, pregiata e autoctona, l’agnello lucano, il maialino nero, ma possiamo parlare anche di cacciagione, di grandi prodotti caseari, il caciocavallo podolico, i caprini…

d: Queste sono le basi, diciamo, ma lei affermava che la “cucina della nonna” non si può rifare. Lei cosa ci mette di suo?

r: Innanzitutto le tecniche di cottura. Prima si cucinava sottocenere, oggi si fa a bassa temperatura, ma il concetto è lo stesso. Oggi siamo vegani per scelta, un tempo per necessità. Insomma, oggi tutto viene “riconsiderato” alla luce dall’abbondanza di cibo, che invece prima scarseggiava. Una volta il secondo era un semplice pane e formaggio (quando lo si aveva), ma uno dei piatti che io ho ripreso è l’insalata di pere all’aceto con lo zucchero. Veniva offerto alle donne quando si “sarchiava” il grano, mentre agli uomini si dava un piatto più sostanzioso (si può dire che c’era in atto una sorta di discriminazione alimentare).

d: Abbiamo appurato che “raccontare” un territorio attraverso il cibo è possibile, ma la sua personale cucina cosa racconta in particolare?

r: Le Dolimiti Lucane, una parte della Basilicata, la cucina che io ho visto fare e che ho trasformato.

d: Ha qualche vecchio quaderno segreto?

r: (Sorride) Il primo quaderno lo feci a scuola, ma prima le ricette non te le dava nessuno, le dovevi rubare, carpire, perché ogni famiglia aveva la propria ricetta storica. Anche quando ho iniziato a lavorare, lo Chef la ricetta non te la dava, dovevi osservare. Pensi che quando ero piccola, qui a Castelmezzano eravamo una delle poche famiglie a fare la pastiera, una cosa insolita. Qui in paese c’è il palazzo della famiglia Parrella/Paternò, che però risiedeva a Napoli: erano loro a regalarci la pastiera, che facevano quando venivano qui d’estate, e noi ricambiavamo con la nostra ricotta. A un certo punto iniziammo anche noi a fare la pastiera, e via via altre famiglie ci imitarono.

d: Quanto è stato difficile avviare un’attività di successo in Basilicata?

r: Mi sono dovuta scontrare prima di tutto con un ambiente maschilista. Badi bene che, trent’anni fa, di “chef donne” non ce n’erano, c’erano solo “donne che cucinavano”. Io, tra l’altro, vengo dal mondo della Giurisprudenza, ma a un certo punto ha prevalso la passione. Vivendo qui, tra grandi silenzi, se si vuol “viaggiare” per il mondo, lo si può fare prendendo le persone “per la gola”. Mi inventai quindi una sorta di primo ristorante, per attrarre gente e condividere. All’inizio era un gioco, ma poi la cosa si fece seria: ho dovuto studiare, inizialmente con uno chef del posto (Pinuccio Volini), uno dei migliori dell’Istituto Alberghiero di Potenza che aveva viaggiato per il mondo. Mi fece sognare e fu una trasmissione orale, una scuola con un vero e proprio precettore. Il cibo è Cultura e la Cultura è anche un tramandarsi di gestualità.

d: Negli ultimi anni il turismo qui è aumentato.

r: Certo, anche se dobbiamo capire bene che sorta di turista vogliamo: c’è quello che ama l’avventura (il Volo dell’Angelo ha dato una vera svolta a questi luoghi), quello che va alla Grancia, i grandi escursionisti, ma c’è anche il turismo eno-gastronomico, ovvero quelli che vengono qui per gustare le nostre materie prime.

d: Quindi va bene così? O magari la politica dovrebbe aiutarvi di più?

r: La politica???

d: Non si arrabbi.

r: No, è che si tira in ballo sempre la politica…loro potrebbero fare le infrastrutture, certo, ma io non chiedo alla politica di fare qualcosa per migliorare la mia tavola: quello dipende da me. Sono stata brava a portare il mondo qui, evidentemente la politica non c‘entra. L’ho fatto da sola. La politica (di ogni schieramento) è chiamata a fare tanto altro, e sempre, per migliorare le condizioni di vita di chi vive dalle nostre parti. Il problema è uno spopolamento che non è mai stato di queste dimensioni, mancano i servizi (qui da noi non c’è nemmeno la scuola media), ma è un gatto che si morde la coda. Pertanto, io esorterei tutti a inventarci un modo per far sì che la gente venga a vivere qui. Ripopolare queste zone significherebbe non dipendere soltanto da questo turismo “mordi e fuggi”: la gente infatti viene qui uno/due giorni, ma poi scappa. E’ sempre un turismo di passaggio.

d: Se potesse prendere Bardi sottobraccio, cosa gli direbbe?

r: Bella domanda. Tornando al discorso di far venire la gente qui, in virtù del nostro stile di vita diverso, che ci fa una terra felice, gli direi proprio di creare ancor di più una terra felice, ove poter vivere senza troppi stress quotidiani. Le persone potrebbero venir qui per rigenerarsi.

d: Cosa farebbe magiare al Governatore?

r: Beh, non la pastiera (ride).

d: Perché lui è Napoletano adottivo e teme il suo giudizio?

r: Sì, ma scherzavo. E’ sempre bello mettersi in discussione, anzi, magari mi darebbe un suggerimento!

d: Quale suo piatto può meglio rappresentare la Basilicata di oggi?

r: Strascinati con cacio-ricotta e peperone crusco (alimento che di suo nasce per la conservazione dei salumi). E’ una cosa solo lucana.

d: L’orecchietta in effetti è pugliese.

r: Ma non è così! Ne ho discusso anche all’Expo! I Pugliesi sono stati solo bravi a farne un brand, grazie a Lino Banfi. Ma le orecchiette qui da noi si sono sempre fatte! Guardi, lei che è giornalista lo sa bene, è tutta una questione di comunicazione: la gallina fa l’uovo e dice “coccodè”, la "tacchina" fa l’uovo lo stesso, ma se ne sta zitta. Ecco, sulla questione orecchiette, noi Lucani siamo delle "tacchine"!

d: Mettiamo che tra cent’anni scoprano una targa a suo nome qui a Castelmezzano. Cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r: Bah, lei mi sorprende con queste domande! Comunque, più che le parole, vorrei dire il concetto: essere bravi a tramandare i nostri saperi a chi viene dopo di noi (allo scopo sto scrivendo anche un libro, “L’amore si mangia”). Altrimenti siamo destinati a cadere nel vuoto. Prenda il pane, una volta lo si faceva in famiglia: io ho studiato una ricetta che consente ai ragazzi, attraverso quella che io chiamo la “tecnologia agevolativa” (leggi Bimby) di impastare il proprio pane a casa loro, scegliendo le farine, in modo tale da sottrarsi a quelle multinazionali che ci propinano cibo-spazzatura.