- Nino D'Agostino
- Sabato, 11 Maggio 2019 10:01
Lo spopolamento, questo sconosciuto. L’attualissimo tema dello spopolamento non è soltanto un fenomeno lucano, interessa l’intero Appennino, le montagne del Nord del Paese (ad esempio il Cuneese), tante altre parti del mondo anche sviluppate, come l’Olanda per dirne una.
Ovviamente mal comune mezzo gaudio non ha niente di consolatorio. Sul piano territoriale, l’Italia ha due problemi, Il divario Nord- Sud e quello delle aree interne, e di conseguenza due questioni da affrontare, che vanno ricondotte a unità nel più generale sviluppo diseguale sia economico che territoriale del Paese. Le soluzioni hanno tratti comuni, ma, per restare al tema dello spopolamento, devono fare i conti con vincoli puntuali come le reali risorse disponibili nei vari luoghi, i fattori naturali con cui misurarsi, l’accumulo delle vicende economiche che hanno fatto la storia dei territori, i processi di valorizzazione in atto, i limiti dei finanziamenti pubblici per sostenere la domanda interna, a scala locale, la necessità di creare interdipendenze territoriali e last, but not least, le relazioni culturali che storicamente sono state costruite tra le singole realtà da considerare. Tutte cose che implicano una visione del “possibile sviluppo”, una strategia e una conseguente organizzazione di supporto, la sperimentazione delle misure da realizzare. In assenza di tale contesto operativo, limitarsi a scarabocchiare sulla cartina geografica confini amministrativi, tipo Grande Lucania o macroregioni basate sul connubio Potenza-Taranto, lascia il tempo che trova. Forse servono a qualche notabile per avere visibilità e per finalità politiche particolari. Ma torniamo alle cose concrete. L’idea del “tutto dappertutto” è sbagliata, così come è sbagliata l’idea che si possa risolvere il problema dello spopolamento con soluzioni amministrative. Le istituzioni contano certamente, ma vanno inquadrate nelle cose accennate in precedenza. E’ di tutta evidenza che la bassa densità di popolazione e il tendenziale spopolamento delle aree interne non sono frutto di un destino cinico e baro, ma più semplicemente conseguenze di processi agglomerativi in altre realtà che ben conosciamo. La concentrazione delle risorse nello spazio produce vantaggi, in termini i di competitività che la teoria economica spiega chiaramente. Va detto comunque che le nuove infrastrutture immateriali (banda larga, ecc.) rompono in un certo senso l’isolamento delle aree deboli, ampliandone le opportunità di inserimento in contesti più generali. Il quadro entro cui muoversi per affrontare il tema delle aree interne è quello di “area vasta”, che comprende per la Basilicata le due aree metropolitane dei Napoli e di Bari-Barletta e in questo ambito l’opera di infrastrutturazione già funzionante come l’autostrada e la costruenda ferrovia tra le due località in esame. La Basilicata si salva se riesce ad attivare un corridoio interno dello sviluppo adriatico, in parallelo con quello costiero già in progress; un corridoio concepito come decentramento delle attività dell’area metropolitana pugliese, sfruttando altresì tutte le potenzialità connesse all’indotto del petrolio, creando una città comprensoriale nel Vulture, completando il piano irriguo dell’alto Bradano, raccordando organicamente i giacimenti turistici regionali (Maratea, costa ionica, i parchi nazionali del Pollino e della Val d’Agri–Lagonegrese, il diffuso patrimonio monumentale e architettonico di Melfi , Venosa e dei piccoli borghi disseminati sull’intero territorio regionale). Ciò implica la stipula di patti istituzionali con le regioni limitrofe e con i grandi players insediati in Basilicata (Fca, Eni, Total, Shell) per coinvolgerli in un grande progetto di resilienza territoriale e di sviluppo delle attività economiche connesse ai due grandi poli dell’energia e dell’automotive. Tutto questo è possibile, se usciamo dalla logica dello staterello lucano, chiuso, com’è, nei suoi confini amministrativi. E’ appena il caso di rilevare che in realtà il tema riguarda tutti i 20 staterelli regionali che compongono il vestito di Arlecchino del Paese, che sono più numerosi di quelli del periodo pre-unitario. Concordo con Sabino Cassese quando osserva ,allineandosi alla profezia di F. S. Nitti, in merito al fallimento delle regioni, che “le regioni invece di contribuire al superamento del divario, lo aggravano, aggiungendo dualismo economico al dualismo amministrativo, aggravato da alte quote di dipendenti per utilità clientelare”. Occorre e con urgenza un riordino istituzionale che riveda le regioni, ordinarie e speciali, 20 sono certamente troppe, Siamo in presenza a una stratificazione istituzionale, includendo le province, le città metropolitane, gli oltre 8 mila comuni, che impedisce di fatto, il superamento del due divari suddetti, moltiplicando gli egoismi locali, i costi della politica, i cacicchi regionali e non solo. In questo ambito, va disinnescata la bomba del regionalismo differenziato, che già nel lessico evidenzia il suo intento divisivo, ipotizzando regioni di serie A e di serie B, promosso dalle tre regioni del Nord (Veneto, Lombardia, ed Emilia- Romagna), a cui si sono accodate già altre7 regioni, alcune delle quali anche presenti nel Mezzogiorno. La cosa folle è che tutti i partiti politici hanno finora assecondato questo disegno chiaramente eversivo, portato avanti dalla lega Nord di Salvini, che tuttavia incredibilmente riceve oggi consenso anche nel Mezzogiorno. Non ci vuole molto a capire che in un paese come il nostro con i profondi divari esistenti da secoli, la frammentazione istituzionale fa perdere di vista la prospettiva della unificazione socioeconomica, sempre declamata e mai raggiunta e che solo una organica politica centralistica può consentire. Che in passato i governi centrali non abbiano perseguito efficacemente tale obiettivo, non significa che l’approccio era sbagliato, ma più semplicemente che le forze politiche, sindacali imprenditoriali, intellettuali hanno fatto prevalere disegni di breve periodo, assecondando visioni corporative, comunque molto parziali. L’idea gramsciana dell’alleanza tra i contadini del Sud e gli operai del Nord, per fare un esempio, per costruire una politica di portata nazionale, è stata scartata dalle due principali chiese delle politica, la Dc e il Pci, per assecondare gli interessi contingenti della aree forti del Nord, rinunciando di fatto a un disegno unitario. Oggi non abbiamo statisti che pensano all’interesse generale del Paese, ma mediocri amministratori regionali che mettono al primo posto i loro interessi di bottega, in una prospettiva in cui di fatto non c’è spazio per l’Italia e gli italiani, ma più semplicemente per i veneti, i lombardi, i lucani e così via, che vengono “prima” dell’insieme nazionale, capovolgendo la scala dei valori indicata da Montesquieu, pensata per elevarsi rispetto agli angusti limiti localistici ed egoistici e tendere verso gli infiniti spazi universali.