- Rosa Santarsiero
- Sabato, 16 Marzo 2019 16:01
Raccogliere le testimonianze dirette dei protagonisti e ascoltare le loro storie senza lasciarsi sfiorare è un compito assai arduo per un giornalista, specialmente se seduta dall’altra parte c’è Valeria Favorito.
Corporatura esile, look sportivo e uno sguardo arguto e malinconico allo stesso tempo, che diventa ancora più afflitto quando l’asse della discussione si sposta, inevitabilmente, sul compianto Fabrizio Frizzi, il suo “fratellone” che, nel 2000, le donò il midollo osseo regalandole una nuova vita a soli undici anni. Abbiamo incontrato la veronese Valeria Favorito in occasione della manifestazione “Donne” organizzata presso Biolab a Potenza lo scorso 7 marzo, a ridosso dell’International women’s day, grazie agli sforzi congiunti dell’associazione Letti di Sera e della sua esperta in comunicazione Simona Bonito, instancabile animatrice culturale, e dei diversi relatori che si sono alternati durante la serata.
Valeria, uno dei molteplici risvolti della manifestazione “Donne” riguarda il difficile rapporto che si instaura con la malattia, nonché la sofferenza legata al dover affrontare un difficile percorso di recupero fisico e psicologico. Nel suo caso, cosa ricorda di quel periodo?
Ricordo tutto. Fino a undici anni ero una bambina sanissima, tanto è vero che non mi ero mai recata da un pediatra. A un certo punto, però, la mia vita è cambiata bruscamente: vomitavo tutte le mattine prima di andare a scuola ed ero sempre più stanca. Dopo una serie di vicissitudini, i miei genitori decisero di raggiungere l’ospedale di Verona e, dopo una mattinata di analisi, i medici gli dissero: “per vostra figlia non c’è più nulla da fare”. Avevo il midollo completamente ammalato. Fui ricoverata d’urgenza ma, al di là delle cure e della chemioterapia, c’era bisogno di un trapianto. Furono tipizzati i miei fratelli, ma purtroppo non erano compatibili con me al 100%, dunque bisognava trovare un donatore extra-familiare. Nel marzo del 2000 finalmente fu trovata una persona compatibile, tuttavia continuava a rimandare l’intervento per motivi di lavoro. A maggio dello stesso anno, l’ematologo del Policlinico di Verona disse al donatore: “guardi che la bambina non può durare ancora a lungo, bisogna prendere una decisione e comunicarla ai genitori per non creare false aspettative”. Quell’uomo di quarant’anni, di Roma, scelse come data quella del 21 maggio 2000 che, ancora oggi, è l’unico caso di espianto e trapianto avvenuto di domenica, con tutto il personale in operativo.
Era Fabrizio Frizzi?
I miei genitori hanno supposto che si trattasse proprio di Fabrizio Frizzi quando ascoltarono in tv, nel programma “Per tutta la vita”, l’annuncio di Romina Power che giustificava e spiegava agli spettatori l’assenza del conduttore.
La sua vita è come se avesse avuto un primo e un secondo tempo.
All’epoca c’era la possibilità che donatore e ricevente potessero conoscersi. Nel 2003, invece, uscì una nuova legge che ribaltava, in sostanza, la precedente. Il mio ematologo mi consigliò, nonostante tutto, di scrivere una lettera in anonimato al Centro trapianti di Genova che, a sua volta, l’avrebbe poi smistata al destinatario, e così ho fatto. Dopo diversi mesi ricevetti una lettera di risposta scritta al computer e firmata semplicemente: “Fabrizio”. Da allora questo rapporto epistolare è durato per circa tre anni.
Il primo incontro?
Nel 2006, durante la consueta colazione al bar prima di entrare a scuola, da un giornale locale appresi che Frizzi si trovava a Verona, nella mia città, per presentare la Straverona e, in serata, la Partita del Cuore. Iniziai a girare tutti gli hotel e i ristoranti della mia città con in mano una lettera scritta in tutta fretta contenente foto, nome, cognome, numero di telefono e i miei contatti diretti per riuscire a consegnargliela. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto in città, una persona di buon cuore allo stadio mi consegnò una divisa da fotografo che mi consentì di entrare e posizionarmi a bordo campo. Poco dopo mi raggiunse una persona distinta, la quale mi garantì che avrebbe consegnato personalmente la lettera a Frizzi, quindi uscii; al termine della manifestazione, però, tornai ai cancelli e supplicai per una mezz’ora uno steward che mi fece nuovamente entrare in campo. Quando fu il mio turno mi limitai a dire: “piacere, Valeria!”. È stato il momento più bello della mia vita. Lui ha capito subito chi fossi, ha aperto la giacca e tirato fuori, dalla tasca interna, la lettera che avevo scritto per lui qualche ora prima.
Dopo il primo incontro lei ha mantenuto dei rapporti costanti, al punto da volere Frizzi come testimone di nozze…
Per me era realmente un “fratellone”. Nel 2013 mi sono nuovamente ammalata e lui è corso in ospedale rendendosi nuovamente disponibile per un eventuale nuovo trapianto, ma non è stato possibile perché una sua cellula nel mio sistema si era ammalata. Ho avvertito sempre la sua presenza e ogni anno, ogni 21 maggio, mi ha sempre telefonato per farmi gli auguri.
Lei è diventata un’ambasciatrice di positività e di coraggio. Cosa si sente di dire alle donne, o a tutte le persone che oggi affrontano la loro battaglia?
La famiglia e la fede sono due pilastri fondamentali. Non bisogna mollare mai, fino alla fine! Poi se è destino va bene, ma prima bisogna provarci! A chi sta bene dico, invece, di andare in ospedale a trovare gli ammalati, perché ho visto con i miei occhi molti pazienti soli. Ai genitori di ragazzi e ragazze maggiorenni e in buona salute chiedo di spiegare ai propri figli il valore della donazione, incoraggiandoli a rendersi disponibili verso un grande gesto d’amore.