giulio_giordano_controsenso.jpgL’IA e i moderni software grafici possono essere certamente d’aiuto nel lavoro di un aspirante fumettista professionista, ma sempre ammesso che l’interessato abbia “la mano” (e cioè un talento naturale), da legare a doppio filo a studio, costanza e anche a un pochino di caparbietà.

Parola di Giulio Giordano: originario del Capoluogo, è uno dei disegnatori lucani più importanti nel panorama nazionale (membro di primo piano della scuderia Bonelli), nonchè docente di fumetto, fondatore della prima e più prestigiosa scuola di “comics” in Basilicata, la “Redhouse Lab” di Potenza.

d - È stato difficile partire dalla Basilicata per intraprendere la professione del fumettista, iniziando da una “semplice”, grande passione?

r - Dico la verità. Nel mio caso non era necessario partire proprio dalla Basilicata. Questo è un tipo di lavoro che può essere fatto anche a distanza,. I capi della Bonelli in dieci anni li avrò visti sì e no due volte. Benedetto il web e chi lo ha inventato, poiché è grazie ad esso che si è riusciti a consegnare delle tavole digitali e non più cartacee. Uscire dalla Basilicata non era in realtà necessario per me, il mio trasferimento a Bologna è dipeso più che altro da ragioni personali.

d - La sua è stata una gavetta piuttosto lunga. Sono sì dieci anni che lavora in Bonelli, ma ha fatto anche tante altre cose qui in Basilicata...

r - Certamente. Il mio mondo non parte direttamente dal fumetto. È una grande passione, ma la mia carriera parte come “graffittaro”, con i murales sul cemento potentino.

d -...a tal proposito è noto in città il murale di San Gerardo realizzato a rione Gallitello

r - Sicuramente, grazie anche all’aiuto di Francesco Romagnano e della sua associazione. Mediante la collaborazione con il Comune di Potenza poi sono nati anche altri progetti come il murale sui “Turchi” all’interno delle scale mobili della città, in viale Dante, e l’altro al campo scuola. Insomma, posso dire che abbiamo in un certo senso istituzionalizzato i murales, poiché un tempo venivano visti un po’ come un gesto selvaggio.

d - Prima dei murales “istituzionali” in città, lei ha mai avuto qualche problema con i vigili?

r - All’inizio non badavamo tanto ad avere permessi e ovviamente c’erano dei muri vincolati. Chiaramente non abbiamo mai imbrattato gli angoli del centro storico. C’erano però dei risvolti alquanto simpatici, come l’obbligatorietà nella scelta di alcuni colori in relazione al contesto. Ricordo ancora i suggerimenti dell’architetto Grano che mi consigliava di evitare di usare il rosso, poiché distraeva gli automobilisti alla guida.

d - Non è necessario fare il fumettista spostandosi, ha detto. Quali sono dunque le tecniche che impiega? Che ruolo ha la digitalizzazione nel suo lavoro?

r - È brutto a dirsi, ma non tocco un foglio e una matita da circa cinque anni. Ormai buona parte del lavoro è frutto della tavoletta grafica e di tanti programmi, che sono talmente potenti, da garantire una perfetta aderenza e sensibilità delle proprie mani al lavoro che si va a realizzare, e che rendono, altresì, molto più semplice il tutto. Chiariamo un concetto, però: se non sai disegnare con un foglio e una matita, questi stessi programmi non fanno certo miracoli...

d -...viviamo in una società delle “scorciatoie". È un discorso che vale anche per la musica e per lo spettacolo, ove si ritiene -erroneamente- che il talento possa e debba rivestire un ruolo di secondo piano.

r - Assolutamente no, infatti. Bisogna aver studiato tanto, aver fatto scuole di fumetto, aver imparato l’anatomia, la prospettiva e tutt’una serie di cose e di aspetti che se non si approfondiscono adeguatamente, rendono impossibile a chiunque l’arte del fumetto. Certo, ci sono degli escamotage come l’intelligenza artificiale ma che sta creando in realtà una serie di problemi, poiché attinge da un bacino di cose già realizzate: dunque non vi è proprio nulla di originale, certo non si può intravedere un’impronta artistica.

d - Lei è anche un docente di fumetto all’interno della prima scuola nata a Potenza...

r - Certamente. È la “Redhouse Lab” che ho fondato insieme a Gianfranco Giardina e Gianluca Lagrotta, con l’aiuto anche di Giuseppe Palumbo, che è stato un po’ il nostro Guru nel campo del fumetto. È stato bello avere tanti allievi. All’epoca noi per disegnare fumetto dovevamo per forza raggiungere altre città, come Napoli -per indicare la più vicina- dunque abbiamo voluto offrire una opportunità a tutti i ragazzi che non hanno le possibilità di spostarsi. Abbiamo fatto tante docenze, tanto che la scuola esiste ormai da tredici anni. Ne siamo orgogliosi.

d - Qual è l’età media e quali sono le aspettative dei vostri alunni?

r - Be’, l’età è variegata. Noi cerchiamo di partire dai sei anni in su, anche perché spieghiamo delle cose abbastanza tecniche. Non c’è un limite all’età. I nostri corsi sono triennali, cerchiamo di trasferire un po’ di tutto. È chiaro che al termine dei tre anni le prospettive diventano individuali e ognuno è artefice delle proprie. Una cosa è certa: bisogna applicarsi e sudare. Una delle platee per farsi conoscere è la manifestazione Lucca Comics, all’interno della quale ci sono le cosiddette “aree pro”, ove gli editori solitamente gravitano alla scoperta di nuove proposte.

Io dico sempre ai ragazzi di andare di persona a presentarsi e di non avere paura dei no. Io al quinto anno ero arrivato alla disperazione, pensavo non mi prendessero più e, invece, la sesta volta mi hanno reputato pronto. Bisogna avere il coraggio. Capisco che le nuove generazioni vogliono tutto e subito, ma non è certo questo l’ambito giusto.

d - Immagino che il primo aspetto da trasferire ai futuri disegnatori è che il lavoro del fumettista è fatto di tanta fatica...

r - Le tavole, sia per Astorina -con “Diabolik”- sia per Bonelli, sono frutto di sceneggiature dettagliate. Ci sono degli elementi che DEVONO essere disegnati, ad esempio in prospettiva, con il chiaro-scuro... insomma c’è tanto studio.

d - A cosa sta lavorando adesso?

r - Abbiamo appena concluso una trilogia di “Martin Mystère” disegnata da me e da Salvatore Cuffari, insieme ad Alex Dante che ne ha scritto la sceneggiatura. Insieme ad Adriano Barone, un altro sceneggiatore Bonelli, stiamo realizzando inoltre un crossover: cioè “Martin Mystère” contro “Nathan Never”, che uscirà l'anno prossimo, il terzo in ordine di tempo. Verrà pubblicata una parte sulla testata di “Martin Mystère” e le altre due su “Nathan Never”, sarà pieno di azione e misteri. Ci stiamo divertendo tantissimo a disegnarlo.

d - Lei è stato uno degli autori del “graphic novel” ispirato al primo dei film della serie “Diabolik”, diretta dai Manetti Bros. Come sa, ci sono state delle polemiche a riguardo (a non tutti il taglio “Anni 60” è piaciuto) e probabilmente anche gli incassi non sono stati quelli che ci si aspettava. Lei come giudica -da spettatore- questa trilogia?

r - Doveva essere un po’ meno legata al fumetto, a mio avviso. Si percepisce che c’era una limitazione riguardo al fatto di voler realizzare qualcosa di realmente nuovo. Ci si è un po’ mantenuti nel mezzo. Qualcosa, segnatamente nel secondo e nel terzo film, non ha funzionato, specialmente il cambio dell’attore protagonista. Su Miriam Leone come Eva Kant, invece, non ho nulla da dire.

d - Concludendo: il Diabolik di Mario Bava o quello dei Manetti Bros?

r - Quello di Bava, poiché si è potuto allontanare da certi schemi.. e poi diciamolo: tecnicamente non ha paragoni. Io Bava lo adoro.

(Testo tratto dall’intervista realizzata da Walter De Stradis per il programma “I Viaggi di Gulliver”, andato in onda su Radio Tour Basilicata il 08/01/2024)