- Redazione
- Sabato, 17 Settembre 2022 08:48
Clikka sulla foto per guardare il video ell'intervista andato in onda su Lucania TV
di Walter De Stradis
Professore di filosofia, fondatore dell’associazione Basilicata 1799, curatore di diversi volumi e promotore di iniziative socio-culturali di ampio respiro, Francesco Scaringi è -insieme a Giuseppe Bisceglia- ideatore, curatore e direttore del “Città delle 100 Scale Festival”.
Giunta alla sua 14esima edizione (avviatasi il 10 settembre scorso e che si concluderà il 29 novembre prossimo), la multiforme kermesse (teatro, danza, musica, dialoghi e approfondimenti), ormai di respiro internazionale, è uno degli eventi più attesi e seguiti del panorama artistico e culturale della regione.
d: Come giustifica la sua esistenza?
r: “Grazie a mamma e papà”, direbbe innanzitutto qualcuno. E poi la giustifico sperando che gli altri mi vogliano bene (un’esistenza vale se vale per gli altri). Sono inoltre consapevole di vivere all’interno di una società, e dunque cerco di dare anche delle risposte.
d: In che misura, facendo Cultura, ritiene di dare “risposte” alla società?
r: E’ una cosa molto complessa: sicuramente si colgono degli spunti dalla realtà, nello stesso tempo si danno delle risposte, ma si aprono anche delle possibilità. Non è detto che la Cultura debba dare risposte immediate, bensì anche a più lungo termine. E questo è l’elemento più affascinante nel fare Cultura, avere una prospettiva per il futuro.
d: In quattordici anni di questo Festival cosa crede di aver dato alla città? O alla regione...
r: Abbiamo chiamato il nostro Festival “delle cento scale”, non solo riferendoci alla “verticalità” di Potenza, ma anche perché le scale stesse aprono dei passaggi, delle relazioni, dei transiti e io penso che una delle cose fatte è stata dunque proprio “aprire” la città alla comunicazione, alle relazioni, con delle finestre anche sulle problematiche del capoluogo. Non è un caso che abbiamo anche spostato il Festival dai teatri all’interno della città vera e propria. E poi c’è stata sicuramente anche la valorizzazione di alcune professioni, innescando -attraverso varie proposte- processi culturali, non soltanto di intrattenimento. La nostra non è dunque solo una “rassegna” di spettacoli, bensì un qualcosa di molto più articolato, che costruisce una comunità, che a sua volta cerca di relazionarsi con l’intera città.
d: Noi potentini, forse perchè montanari, spesso ci chiediamo cosa ci sia “dietro” alcuni fatti e fenomeni. Cosa c’è “dietro” il Festival Città delle Cento Scale?
r: Ci sono due persone, io e Biscaglia, che avendo sempre lavorato nel sociale (ed essendo anche docenti e operatori culturali), hanno pensato di condensare alcune esperienze in un’attività che potesse essere gratificante per loro e per la città. Il nostro Festival si può dire che ha raggiunto una statura di livello europeo.
d: Ci si guadagna, anche?
r: No. Il mondo dello Spettacolo e della Cultura in genere è un mondo del precariato. Io sono fortunato, essendo uno stipendiato con un suo lavoro, e non è certo questa attività culturale -per me e il mio socio- la fonte di guadagno (al quale non si è mai puntato). Certo, per chi ci lavora (tecnici, operai e quant’altro), rappresenta anche una possibilità di guadagno, ma è sempre un mondo del precariato. Non c’è una prospettiva certa.
d: E quali sono i rapporti con la politica, che ha in carico lo sviluppo economico, ma anche culturale di una regione?
r: E’ sempre un rapporto difficile, quello con la politica. Specie se la Cultura vuol essere autonoma, in quanto la politica -che è anche dominio- tende appunto anche a dominare e a condizionare. Esistono però anche delle possibilità, che uno si deve giocare, puntando sulla proposta, la credibilità e sulla propria autonomia. Lavorando su questo, si riesce a ottenere una certa distanza dalla politica, che -attenzione- non è distacco, disinteresse, perché la politica è importante, ma si tratta di non entrare in quei meccanismi di vicinanza e di scambio. Ed ecco perché sono importanti le leggi e le normative a cui fare riferimento, per poter continuare a fare ciò che si fa.
d: A Potenza (e in regione) qual è la scalinata più impervia per il cittadino?
r: Come contesto c’è una crisi (acuita dalla Pandemia e dalla Guerra) che porta a un’incertezza generale, a livello economico, lavorativo, a livello di futuro. A Potenza, che è una città del Sud, certe problematiche si moltiplicano (è aumentata l’emigrazione). Io credo che qui da noi si debba riconquistare la dimensione della “provincialità”, ovvero la capacità di essere una piccola città in cui si potrebbe vivere molto meglio, ma in cui non ci si riesce.
d: Perchè?
r: Qui c’è una politica che ha un atteggiamento per molti versi “paternalistico”, ma priva di capacità progettuale. Si va per emergenze, la spesa pubblica è tutta sull’immediato. Questa città non la si “slancia” nel futuro, mentre oggi le città sono organismi che devono imparare ad apprendere. E un passaggio può essere la Cultura.
d: Spesso in queste interviste è stato detto che in città certi ambiti culturali sono “blindati”, poco “accessibili”, a causa del familismo, dei “cerchi magici” e del perseverare dei “soliti noti”. In particolare sembra che ci sia anche una certa “esterofilia”, una predilezione per chi viene da fuori o, comunque per quei lucani che si sano affermati altrove. Cosa ne pensa?
r: Innanzitutto è giusto non pensare a un “pubblico” unico, ma a più pubblici, e dunque esistono anche proposte culturali diverse, magari di un livello più alto, e anche -sì- delle nuove cose che vengono da fuori (e che in città prima non c’erano), e che come tali possono suscitare interesse. I “cerchi magici” a Potenza? Beh, qui esiste un “difetto”, quello di ritenere che alcuni possono fare “solo” una cosa. Non è così. Le cose vanno intrecciate. E poi esiste anche un “peccato”, che è quello della “auto-soddisfazione”.
d: E sarebbe?
r: Essere contenti di quello che si fa, pensando di aver fatto il massimo e di essere il centro del mondo. Occorre invece decentrarsi, capire di essere una piccola realtà. Questo porta a non accontentarsi del piccolo, guardando invece anche alle prospettive internazionali.
d: A proposito di “centro del mondo”, lei ha collaborato -tra i project leader- anche con Matera 2019. A conti fatti, la Capitale della Cultura è stata un’occasione persa o colta in pieno?
r: E’ stata un’occasione colta poco e poco sfruttata. Anche qui si è puntato molto sull’occasione, sugli eventi, e si è programmato poco. E’ come se tutte le energie fossero state spese per una “esplosione” che poi, in qualche modo, si è sgonfiata.
d: Se potesse prendere il presidente della Regione sottobraccio, cosa gli direbbe?
r: Gli direi subito “pensa ai giovani”. Da insegnante, vedo le loro difficoltà.
d: Come si pone lei, nella polemica sulle assunzioni, anch’esse “esterofile” fatte da Bardi nel suo staff? Essere lucani, per lavorare nei ruoli apicali di questa terra, è una conditio sine qua non?
r: In questi casi si corre il rischio di essere demagogici. Ci sono delle mansioni, degli atti di fiducia, che a mio avviso possono essere dati anche a persone di fuori (se io devo allestire una mostra particolare, occorre trovare chi abbia delle competenze, e anche magari delle relazioni internazionali). Se il lucano bravo c’è, deve essere tuttavia valorizzato: nel nostro Festival non definiamo come “lucani” gli artisti della regione, ma solo come “artisti” e basta. Mi spiego? D’altro canto, non si può chiedere una gestione amministrativa a una classe burocratica che in qualche modo ha sempre dimostrato incapacità, ma che all’improvviso deve essere anche capace. Non sto prendendo posizione, ma ragionando in valore assoluto: chi governa deve anche saper scegliere le qualità giuste per i progetti che vuol mettere in atto; i prescelti possono essere lucani e non, ma la direzione dev’essere quella del progresso, e non magari quella dell’amicizia o dell’appartenenza: il quel caso siamo in un’altra direzione, che ovviamente io contesto fortemente.
d: “Dire/Tacere” è il “concept” della 14 edizione del Festival Città delle Cento Scale. Perchè?
r: E’ un’idea, non un “tema”, che nasce dall’incontro che abbiamo fatto con Massimo Cacciari, nel quale si è citato il filosofo Ludwig Wittgenstein che ha scritto una frase molto bella «Di ciò di cui non si può dire, si deve tacere». Noi ne facciamo ovviamente un uso metaforico: specie nel caso della Guerra, noi stiamo assistendo a un parlare eccessivo, aggressivo, spesso volto a far tacere qualcun altro. In questo gioco di contrapposizione, viene fuori la necessità dell’ascolto.
d: Il libro che la rappresenta?
r: “L’uomo senza qualità” di Musil.
d: La canzone?
r: “San Lorenzo”, di De Gregori.
d: Il film?
r: “Morte a Venezia” di Visconti.
d: Mettiamo che far cent’anni scoprano una targa a suo nome su una delle famose “scale” di Potenza: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?
r: «Di qui è passato un signore, che forse un po’ l’ha pensata, questa città».