- Redazione
- Sabato, 10 Settembre 2022 08:00
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di Walter De Stradis
«Non ho iniziato a scrivere per fare “il Messia”, ma perché, per tanti anni, non ho avuto emozioni e non le davo. Oggi scrivo poesie per elargire emozioni alla gente».
Carmine Donnola entra nell’ultima cantina rimasta di Potenza, la caratteristica trattoria “da Vincenzo” in centro storico, con un cesto di vimini sottobraccio, colmo di sue poesie impresse su foglietti arrotolati.
Il gestore sceglie una di queste piccole pergamene colorate, cogliendo un testo nel quale afferma di "ritrovarsi". A sentire Donnola, succede spesso.
Il poeta che ha iniziato raccontando la sua esperienza di ex alcolista, e che è finito per attrarre l’attenzione di musicisti come Eugenio Bennato (col quale ha condiviso il palco) e di registi come il Nastro D’Argento Nicola Ragone (che gli ha dedicato il corto “Urli e Risvegli”), è infatti un inveterato spacciatore di Cultura.
Giornalisti, filmmakers e curiosi da tutta Italia vanno a trovarlo nella sua Grassano (Mt), e non tornano mai a mani vuote. Magari, al contrario, con una delle sue bottiglie di vino “ricoperte” di poesia.
d: Come giustifica la sua esistenza?
r: Raccontando il mio passato e vivendo il mio presente, che senza quel passato non ci sarebbe. La giustifico inoltre con un futuro diverso e molto migliore.
d: Lei dice giustamente che il suo passato è il fondamento di ciò che sta facendo oggi: quando, come e perché divenne un alcolista?
r: Non c’è un perché. Ti ci trovi senza saperlo. Cadi sempre più in fondo, fino a rimanerci. Ed è facile cadere, perché sei impreparato. Io prima non facevo abusi, non ero un bevitore né un “frequentatore” di alcol, ma a un certo punto lo sono diventato senza accorgermene.
d: Quando ha capito che era diventato un alcolista?
r: Non bevevo superalcolici, ma a un certo punto, in mancanza del vino o della birra, ho cominciato a cercarli, e –successivamente- in mancanza di superalcolici, mi è capitato di bere addirittura l’aceto. A quel punto ho capito.
d: Quanti anni aveva? Lavorava?
r: Sì, avevo circa trentacinque anni e lavoravo, come se nulla fosse, prima come operaio in fabbrica e poi come bidello. Riuscivo a mascherare molto bene. Mi è andata bene. Tantissimo. Non persi la dignità, non diventai un tipo violento, cosa che invece accade di frequente a chi beve.
d: E quale fu, invece, l’effetto dell’alcol su di lei?
r: La solitudine. Stare solo mi piaceva.
d: Era già sposato? Aveva figli?
r: Sì e sono stato fortunato anche in questo, perché a volte i familiari abbandonano gli alcolisti, non avendo altra scelta davanti a situazioni davvero drammatiche.
d: Quando e come è arrivato il momento di smettere e di curarsi?
r: Mi sentivo inutile in questa società e rispetto a tutto ciò che mi circondava. Mi era indifferente tutto.
d: Non gliene fregava più niente.
r: Assolutamente niente. Ripeto: sono stato fortunato. Ne sono uscito e oggi per me è facile parlarne, perché sono quasi libero da quella schiavitù. Dico “quasi” perché per un ex alcolista c’è sempre il rischio di una ricaduta.
d: Lei ne ha avute?
r: Sì. Sono stato due volte in clinica, a Senigallia, per disintossicarmi. Dopo circa un anno dalla prima disintossicazione, a un certo punto mi dissi: “Ma che potrà mai farmi un goccetto solo?”, e piano piano ricominciai, finché capii di esserci ricaduto e chiamai subito in clinica: “Guardate che le cose vanno male”. Tornai a Senigallia e fu molto brutto perché era Natale. Ma era più importante salvarsi.
d: Da quanti anni è fuori dalla dipendenza?
r: Saranno una ventina d’anni.
d: Com’è noto, lei divenne poeta proprio in seguito a queste sue vicende. Una volta mi raccontò che scriveva poesie sui tovagliolini di carta, in cantina, mentre beveva, e a quanto pare fu il gestore a convincerla a non gettare via i suoi scritti.
r: Già, lui ingoiò letteralmente quella poesia, perché io avevo il vizio di cestinarli, quei foglietti. Lui disse: «Meglio che rimanga nella mia anima e non nel cestino».
d: Un poeta anche lui!
r: Assolutamente sì.
d: Pertanto lei è, da tempo, un esempio, anche per i giovani, con la sua testimonianza “a lieto fine”. Qui a Potenza un problema “giovani e alcol”, sembra esserci, purtroppo. Questa estate il Sindaco ha cercato di arginare il fenomeno tramite alcune ordinanze che riguardano il Centro… ma cosa dire a questi ragazzi?
r: Che non ha senso questo buttarsi. La vita è molto bella e ci sono molte altre cose, assai più interessanti, da fare. Quale che sia la causa, il malessere che ti spinge a buttarti, non è giustificabile di fronte alla vita e quello che TU potresti fare. Io stesso iniziai senza rendermene conto, ma sappiate che poi è molto difficile venirne fuori. Io sono un “salvato”, da chi non so, ma sono certo che da solo non ce l’avrei fatta. Donarsi agli altri: già quella è una cosa bella. Io ho passato una vita inutilmente, una vita vuota, eppure avevo tutto, come voi. Quando andate a bere dimenticate che a casa avete degli amori, che avete degli amici, degli impegni futuri, che non vanno buttati. Io ce l’ho fatta, ma è stato difficile, non cadete in quell’inferno. Anche il bullismo è una cosa atroce, vergognosa, chi lo attua non sa cosa sia l’amicizia, e infligge all’altro un male inimmaginabile.
d: Sono sufficienti gli interventi amministrativi? Sono solo dei palliativi? Qual è il ruolo, più in generale, delle istituzioni (scuole e famiglia compresi)?
r: La questione è che si viene “posseduti” dall’alcol…certo, le istituzioni dovrebbero aiutarli di più, dando Lavoro, Cultura, impegni sociali, alimentando la “presenza umana”, perché spesso ci si butta nell’alcol per solitudine.
d: I giovani lucani hanno un problema di solitudine?
r: Ma no, è un problema di TUTTI. Oggi credo che la solitudine sia più accentuata. Il Covid ci ha messo del suo, ma il fatto è che ci stiamo chiudendo, stiamo diventando indifferenti l’uno all’altro, persino tra vicini di casa. Adesso ci sono due tipi di guerre: c’è la guerra “visibile”, quella in Ucraina, e quella “invisibile”, che facciamo tra di noi, dandoci indifferenza l’un l’altro, senza aiutarci.
d: Se potesse prendere il presidente della Regione sottobraccio, cosa gli direbbe?
r: Difficilmente io andrei a braccetto con un presidente della Regione (sorride). Però gli chiederei di aiutare la popolazione, perché qui la situazione è drammatica: i paesi si stanno svuotando, la gente diventa sempre più povera (da un bel po’). Abbiamo bisogno di lavoro e non di fabbriche che inquinano e che in alcuni casi ammazzano. Il problema dell’alcol è drammatico proprio perché è “la droga dei poveri”: con pochi soldi ti compri un bottiglione di vino, vai a casa e ti distruggi. L’alcol il cervello te lo distrugge.
d: Lei scrive, pubblica libri e collabora molto con la musica locale: forse è stato il primo, certamente uno dei pochi, a recitare le sue poesie sulle basi di musica folk e popolare lucana, esibendosi con band dal vivo, ma anche registrando. Chiedo dunque anche a lei: è agevole fare cultura e musica in Basilicata? E’ vero che, molto spesso, tocca “chiedere” alla politica?
r: La Basilicata è ricca di artisti e –anche se non sembra- sono amici e solidali tra loro. Credo che il problema maggiore sia che chi organizza certi eventi dia per scontato che ci si debba esibire gratis o per pochissimi soldi. I personaggi “di fuori”, invece, si pagano e basta. Le ingerenze della politica? Sì, un po’ ci sono, e un po’ di colpa ce l’abbiamo un po’ tutti, proprio a causa di quel “tutto è dovuto” a cui accennavo. Ma gli artisti, in realtà, non hanno alternative: debbono esprimere le loro energie, e possono farlo solo suonando.
d: Il film che la rappresenta?
r: “Il laureato”, ma ce ne sono tanti altri…
d: Il libro?
r: …Boh? (si rattrista - ndr) Guardi, ci tengo a dire un’altra cosa: l’alcol ti cancella la memoria, te l’annienta. E’ come se non avessi fatto nulla. A me piaceva tanto leggere e andare al cinema, ma non ricordo.
d: La musica però la bazzica ancora, quindi…
r: Sì… come canzone citerei direi “La morte bianca” di Antonio Infantino, perché è una denuncia contro le morti sul lavoro.