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di Walter De Stradis

 

La sua è una piccola favola: potentino di Vasto (o vastese di Potenza), per quarant’anni giornalista in trincea (a partita Iva), fra emittenti locali abruzzesi e collaborazioni con testate nazionali (con pagamento “a riga”), il bravo e tenace Gianni Quagliarella viene assunto in Rai nel 2019, alla soglia dei sessant’anni. E così ritorna a Potenza, dopo quattro decenni, diventando in poco tempo uno dei volti più riconoscibili del TGR lucano: la sua professionalità, abbinata a un tocco personale di percettibile umiltà ed empatia, lo hanno reso una delle figure televisive “simbolo” del Lockdwon e dei giorni successivi.

D: Come giustifica la sua esistenza?

R: Vivo giorno per giorno, senza programmi. Mi alzo e mi faccio il segno della croce, sempre. Sono uno dei tanti in combattimento su questo grande palcoscenico….La mia vita è la mia famiglia, mia moglie, Laura e i figli Amedeo e Federico.

D: Lei, come i suoi genitori, è di Vasto, ma è nato a Potenza, ove ha vissuto fino ai vent’anni. Ora, dopo quattro decenni, torna qui dall’Abruzzo per motivi di lavoro…

R: Ho sessant’anni compiuti, quindi finora ho passato un terzo della mia vita in questa città. Ma non è retorica se le dico che Potenza l’ho avuta sempre nel cuore. Le racconto un aneddoto calcistico. Ero (e sono tuttora!) tifoso del Potenza Calcio, avevo sei anni, fresco di intervento alle tonsille e quindi impossibilitato ad andare al Viviani come al solito; sentii Bortoluzzi annunciare a “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” che i rossoblu –eravamo in serie B- avevano battuto il Padova per uno a zero: cominciai a urlare dalla gioia … e la sera ebbi un’emorragia tremenda! Pertanto, posso dire che per il Potenza –con tanto di punti applicatimi in gola al San Carlo- ho dato il sangue! (ride) Negli anni, inoltre, ho mantenuto rapporti con diversi amici e compagni di liceo.

D: Adesso ritorna da volto importante del TGR.

R: Bah, in effetti per qualcuno di loro sarà stato una sorpresa, perché a scuola ero abbastanza introverso: io stesso mai avrei pensato di fare il giornalista. Ho un ricordo vivissimo di Luigi Garramone, il mio professore d’Italiano, che sono andato a trovare appena tornato qui a Potenza. Alla Rai del capoluogo sono arrivato in punta di piedi, per me È UN ONORE, e cerco sempre di non perdere di vista la mia cifra, che è l’umiltà, e il mio target, che è il cittadino. La nostra è una grande responsabilità, perché il telegiornale in Basilicata è ancora “il rito delle 14”. Con le parole si deve scherzare il meno possibile.

D: A che punto il giornalismo è entrato nella sua vita?

R: Appena andato via da Potenza, dopo il Terremoto, iniziai a scrivere quasi per gioco su un giornale locale, la Gazzetta di Chieti, anche se –va detto- qualche anno prima qui in città avevo fatto un provino a Tp1 e non mi avevano preso (pertanto a ripensarci adesso mi viene quasi da ridere!). Qui a Potenza comunque avevo già fatto un mini percorso a Radio Potenza Centrale “1” (all’epoca si chiamava così) e avevo iniziato a capire che questo mondo mi piaceva. Nel corso della mia carriera ho poi lavorato per molte radio e televisioni locali, per venticinque anni sono stato collaboratore (a partita Iva) del Messaggero in Abruzzo, ho lavorato per diciassette anni con l’AGI… insomma, la professione giornalistica l’ho praticata e vissuta in tutti i suoi aspetti.

D: E poi è giunto in Rai alla soglia dei sessant’anni. La sua è una storia particolare.

R: Sono entrato in Rai nel 2019, in virtù di una selezione fatta nel 2013. Va detto che per più di dieci anni avevo fatto “l’informatore” per la sede Rai di Pescara, con risultati apprezzabili, e in cuor mio speravo anch’io un giorno di poter diventare un giornalista Rai a tutti gli effetti, ma avevo ormai superato i cinquanta e mi dicevo “Ma dove vado?”. Ciononostante, a cinquantatrè anni partecipai a quella selezione. E qui mi rivolgo a tutti quei colleghi, giovani e meno giovani, che fanno questo mestiere fra mille difficoltà: la mia storia dimostra che non bisogna mai disperare, e che non è mai troppo tardi. Guardate me!

D: E così un giorno qualcuno la chiama e le comunica che –finalmente- hanno pescato da quella graduatoria ferma da sei anni, e le annunciano l’assunzione in Rai. E Potenza ritorna nella sua vita.

R: Le opzioni erano fra le sedi di Campobasso, Cosenza e Potenza e –ovviamente- non ho esitato nella scelta. Sono stato fortunato, non c’è che dire. Tuttora, quando passo in macchina davanti alla mia vecchia scuola elementare, la “San Giovanni Bosco” in Via Verdi (uno dei mie compagni era Umberto Avallone!), o davanti alla Madonnina di fronte alla questura in Viale Marconi, ripenso alla mia infanzia.

D: Come l’ha ritrovata questa città?

R: Innanzitutto mi lasci dire che il mio ritorno a Potenza è stato segnato con la perdita, per la prima volta, di tre punti della patente! (Ride) Sono stato castigato dal famoso autovelox della polizia locale sulla Potenza-Melfi, prima dello svincolo per la Basentana. Andavo a 90, nulla quaestio. Per rispondere alla sua domanda, ai miei tempi Potenza era ancora la classica cittadella abbarbicata sulla collina, mentre oggi l’ho trovata caotica, a causa di una crescita esponenziale, con lo spostamento della “city” in via del Gallitello e la nascita di nuovi quartieri. Ho subito toccato con mano la fine del centro storico o comunque il notevole ridimensionamento di Via Pretoria. E mi è dispiaciuto moltissimo. Senza parlare dell’impatto, davvero marcato, dell’eolico.

D: Se potesse prendere sotto braccio il sindaco Guarente, cosa gli direbbe?

R: Di rilanciare la città dal punto di vista del verde pubblico, partendo magari dal “polmone verde” di Montereale (la piscina va riaperta il prima possibile!), e di dare vigore al Parco Fluviale (una piacevole sorpresa, questa). Gli direi inoltre di favorire una mobilità diversa, davvero sostenibile: abbiamo le scale mobili, una risorsa notevole che tuttavia è clamorosamente sotto-utilizzata.

D: I potentini, dal punto di vista umano, come li ha rivisti? C’è un luogo comune –forse non tanto banale- che ci vuole ormai come un popolo rassegnato.

R: Ho trovato i potentini disincantati, più che rassegnati. Forse ne hanno viste talmente tante, che se casca il mondo loro si spostano un po’ di lato. Certo, la caratteristica del “Lucani brava gente” è rimasta –una cosa che porto sempre con me, ovunque vada- ma bisognerebbe evitare quel disincanto che può sfociare nella rassegnazione, il “tanto non cambia mai niente”, per intenderci. Noto con piacere, tuttavia, l’esistenza di tanti bei fermenti culturali, e questo è un settore che le istituzioni dovrebbero coltivare. Come accennavo, io porto e porterò sempre con me l’immagine di questa piccola regione, uno scrigno, un gioiello, perché tuttora questa terra è poco conosciuta.

D: Nonostante i fasti di Matera 2019…

R: Beh, c’è chi dice che a beneficiarne sono stati soprattutto i pugliesi, e in parte è vero, nonostante l’impegno e la bravura dei tour operator lucani. Agli imprenditori del materano suggerirei però di “non spennare” il turista.

D: Potenza adesso è “Città d’arte”. C’è chi ha ironizzato sul fatto che da noi non ci sia granchè…

R: Beh, forse perché ci sono diverse cose che non si è saputo valorizzare, che magari non si è saputo raccontare, anche perché sono un po’ nascoste. Penso alle stupende chiese del centro storico. Io mi fermo sempre a San Michele, un’architettura spartana, quasi fredda, ma vivo lì dentro i momenti di raccoglimento più belli. Le cose quindi ci sono, vanno valorizzate e soprattutto non dobbiamo piangerci addosso.

D: Diceva del “rito del TGR”, un rito che nei giorni del Lockdown, e tuttora, per i cittadini ansiosi di notizie sul virus è diventato ancora più cruciale. Come ha vissuto quei giorni particolari, trascorsi spesso all’ingresso degli ospedali lucani?

R: Nel corso di tutte quelle dirette, dal San Carlo o dal Madonna delle Grazie, spesso riflettevo: è vero che in un minuto e mezzo noi dovevamo sciorinare dati e cifre, ma la mia paura era quella di apparire comunque troppo distaccato, di non trasmettere cioè la dovuta vicinanza a chi in quel momento soffriva o aveva dei parenti ammalati o –peggio- morti. Ecco, pensavo spesso a questo, ma… cosa vuole, ahinoi, purtroppo il nostro lavoro è quello, e credo che tutti noi si sia comunque offerto un buon servizio. E’ stato uno sforzo corale, penso ai colleghi che stavano in redazione o a quelli in Piazza Prefettura –Umberto Avallone si è fatto quarantatrè giorni- ai tecnici… Credo che i lucani ricorderanno i giorni della pandemia anche grazie alle nostre dirette da quei luoghi simbolo degli eventi.

D: Il film che la rappresenta?

R: Mi piace il realismo di frontiera di Ken Loach.

D: La canzone?

R: Difficile, perché io nasco anche come Dj. La mia canzone simbolo è forse “Sparring Partner” di Paolo Conte.

D: Il libro?

R: “La scuola dei dittatori” di Ignazio Silone, un autore che sto riscoprendo.

D: Fra cent’anni cosa vorrebbe fosse scritto nei “titoli di coda” di un servizio giornalistico sulla sua vita?

R: «In fondo ha fatto bene il suo lavoro ed è stato una brava persona».