'La “provvisorietà” delle cose che si fanno a Potenza' - INDOVINA CHI VIENE A PRANZO? Nino TRICARICO
- Redazione
- Sabato, 28 Settembre 2024 07:00
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di Walter De Stradis
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intitola “La Spiritualità dell’Arte”, la sua ultima mostra pittorica (visitabile fino al 31 ottobre) allestita presso il Museo Provinciale di Potenza. Il potentino Nino Tricarico, ottantasei anni, è però anche scultore, poeta e scrittore, insomma un “Uomo del Rinascimento”, come dicono gli anglosassoni, che al pari di un fisico quantistico, ultimamente si interroga particolarmente sulla dimensione “Tempo”.
d - Come giustifica la sua esistenza?
r - In funzione della voglia di volare. A quattro anni ebbi infatti la fortuna di capire il mito del vento. E questo mi ha consentito di mettere in rapporto la mia vita, non solo con la natura, bensì anche con la leggerezza. Quest’ultima, proviene dalla cultura di Napoli, ove ho studiato. Il Napoletano ha infatti la capacità di trasferire tutto, anche le tragedie, in forma di leggerezza. Le racconto un aneddoto: da ventenne ero solito mangiare in un ristorante partenopeo, perché il pasto costava venti centesimi in meno rispetto alla mensa universitaria; e io ordinavo sempre una porzione di spaghetti, chiedendo al ristoratore che fosse abbondante. Puntualmente, invece, gli spaghetti erano pochi, e alle mie rimostranze, quello rispondeva: "Dotto’, non si sono ancora gonfiati!".
d - (risate) Anche il Potentino ha la capacità di trasferire tutto in leggerezza?
r - Sì. Non a caso nella mia mostra c’è un dipinto intitolato “La Città verticale”. Uno storico dell’arte mi disse che l’immagine risultante della città, con tutte quelle “scatole” messe una sull’altra, fosse troppo bella, per Potenza stessa. Ma io la amo, questa città, nonostante tante piccole cose che non vanno.
d - Ci arriveremo. Quando, nella sua vita, ha capito che sarebbe stato un pittore?
r - Beh, sono figlio d’arte: mio padre era decoratore e a suo modo anche poeta (aveva il compito di intrattenere sette figli, di cui io sono il sesto!). A suo tempo aveva lavorato a Stresa, e quando chiedevo a mia madre come mai si fosse innamorata di lui, lei rispondeva: "Perchè aveva i baffetti da spadaccino senza spada, ma soprattutto perché parlava 'di lassù'". Era stata affascinata, insomma, da un tipo di linguaggio che non le apparteneva.
d - E l’arte oggi riesce a parlare il linguaggio del fruitore, del cittadino?
r - Io credo che un pittore non può fare esattamente quello che vuole il cittadino, ma deve essere soggetto al Tempo in cui lavora. Il nostro compito è quello di rappresentare l’estetica e il senso dell’essere a questo mondo, con un’etica molto forte.
d - E com’è cambiata, nel tempo, la sua pittura?
r - Per molti anni ho fatto l’acquerello, perché ti dà la possibilità di dipingere in breve tempo. L’acquerello non vuole il ritorno, è superstizioso: insomma, o lo fai bene alla prima, o è da buttare. In una giornata ho fatto anche acquerelli di due metri per due, perché li avevo davvero dentro. In questa mostra ce n’è uno, “La bolla”, al cui interno c’è il volto di un animale preistorico e il segno di un libro, a coniugare l’ancestrale con l’esigenza di acculturarsi per ogni cosa.
d - Perché questa sua nuova mostra si intitola “La spiritualità dell’arte?”.
r - Quando cammino per Potenza e osservo, non è la percezione che debbo rappresentare, ma la coscienza di ciò che io guardo. C’è dunque una farfalla che transita per discesa San Gerardo, e quando la osservo mi chiedo se il suo tempo sia limitato soltanto al momento in cui vola a destra o a sinistra, o se esso comprenda anche qualche momento precedente, quando era larva e prima ancora bruco. Insomma, ciò che guardiamo e rappresentiamo è la sommatoria di tutti i tempi che lo riguardano. Pertanto, se vogliamo parlare di spiritualità, dobbiamo partire da una nostra presenza specifica nel Tempo che abitiamo.
d - Le faccio dunque una domanda che è rappresentativa del modo di percepire la cultura a Potenza: quante volte le hanno chiesto “Ma tu fai SOLO il pittore?”. A me spesso chiedono se nella vita faccio “solo” il giornalista.
r - Certo. La mostra, è tutto quello che sto facendo, è dedicata a mia moglie, che non c’è più. Ricordo che una sua amica le chiedeva spesso ove trovassi il tempo per dipingere, scrivere poesie e romanzi, andare in tv a fare esperienze da giornalista.... Mia moglie rispondeva: "Va a dormire all’una di notte e si alza alle sei del mattino". Per trovare il tempo di fare tutto ciò che vuoi, devi sottrarre tempo al sonno.
d - Torniamo allora a quelle “tante piccole cose che non vanno” nella città di Potenza.
r - Parlo di una cosa che mi tocca molto da vicino: la provvisorietà delle cose che fanno a Potenza. Non hanno sempre tutti quella professionalità necessaria per fare il lavoro al meglio del proprio ruolo. Ricordo di un libro, e anche di un film, in cui c’è un uomo che pulisce i cessi, ma lo fa con una grande sacralità, perché felice di farlo: questo non accade spesso nelle strutture che sono i nostri luoghi della cultura. Spesso ci sono persone collocate politicamente, nei luoghi sbagliati.
d - C’è dunque la vexata quaestio delle amicizie, delle appartenenze, dell’esterofilia (Tufano sul nostro giornale lamenta spesso la ricerca spasmodica di nomi “da fuori”).
r - Farò ora qualche esempio di quella cultura potentina che è stata messa all’indice e costretta ad andare via dalla città. Il poeta Giandomenico Giagni, di cui è uscita -finalmente- una monografia, per aver detto su un settimanale nazionale cosa mancasse a Potenza (luce, acqua, che si andava ancora a prendere coi secchi), fu costretto ad allontanarsi dal capoluogo (anche a seguito del chiacchiericcio insensato che qualcuno fece circolare su di lui). Qualcosa di simile accadde anche a Vito Riviello, che su richiesta di “Crimen”, adeguandosi allo stile della rivista, aveva scritto di incappucciati potentini che facevano autoerotismo al telefono con le amanti. Ma, d’altronde, se leggiamo le poesie dello stesso Orazio, scopriamo che questi fu incoronato poeta a Roma, una volta andato via da Venosa...
d - “Nemo propheta in patria”.
r - Sempre così è. Vorrei poi fare una riflessione più ampia. Io continuo a interrogarmi sull’essenza del Tempo. In realtà è un battito di ciglia. E la mia mostra è lì a testimoniarlo. Per dimostrare cos’è il Tempo ho riempito una vasca di piccoli pezzi colorati con un motorino per dare movimento all’acqua: all’insegna del “panta rei”, “tutto scorre”: se io spengo il motorino, ottengo sempre un’immagine di quel tempo, che è colorato. Il pittore, se vuole guardare qualche cosa, gli deve dare il colore del Tempo.