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di Walter De Stradis

 

Ha “il ritmo”, scorrevole, della parlata napoletana: il dottor Armando D’Alterio, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Potenza, ha dimostrato di saper anche scrivere: “La Stampa Addosso” è infatti il titolo del suo libro, distribuito gratuitamente da La Repubblica, che narra dell’inchiesta che rese possibile la condanna all’ergastolo di assassini e mandanti di Giancarlo Siani, il giovane cronista che aveva illuminato i rapporti tra cosche e politica nella Campania della ricostruzione post-terremoto dell’Irpinia. Il pm di quella storica inchiesta era proprio il dottor D’Alterio. Il colloquio col Procuratore Generale di Potenza è avvenuto all’interno del suo ufficio presso il palazzo di Gisutizia, pertanto il consueto “pranzo” di questa rubrica, per una volta è stato soltanto “virtuale”.

D: E’ stato detto che Siani ebbe il coraggio di vedere ciò che è stato (ovvero la ricostruzione Post-Sisma e le collusioni tra politica e criminalità) e che oggi rischia di ri-esplodere coi fondi europei per la ripresta post- Covid. C'è davvero questo rischio, secondo lei?

R: L'emergenza induce alla rapidità. La rapidità, da un lato, è il contrario della burocrazia; l'eccesso di burocrazia è un male, ma anche l'eccesso di rapidità lo è. Il formalismo dei controlli, al contrario, non è "burocrazia eccessiva", ma è democrazia minimale.

D: Vale a dire che il ricorso a delle pratiche troppo veloci aumenta il rischio d'infiltrazione mafiosa?

R: Se "velocità" significa efficientare il processo di controllo, va bene; ma se "velocità" significa ridurre i controlli, non va più bene. I controlli, nei momenti di emergenza, non vanno diminuiti, ma accentuati.

D: A sua avviso lo Stato, la classe politica, si sta attrezzando per prevenire? Voglio dire, c'è lo spessore il "senso dello Stato" adeguato? Se penso ai parlamentari che hanno approfittato (pur legalmente) dei miseri 600 euro di bonus Covid… qualche ansia mi viene.

Io giudico i fatti obiettivi. Evito qualsiasi valutazione politica. Io so che circa un anno fa Raffaele Cantone, eccellente magistrato, uomo che rappresenta i valori della Repubblica, ha lasciato l'Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione) dicendo che era "cambiata l'aria". Una frase di questo tipo, isolatamente considerata, può non significare nulla; se però si scoprisse che dietro questa frase c'è una modifica oggettiva, un abbassamento oggettivo dei "livelli di guardia", allora diventa molto preoccupante. E tenuto conto della qualità di Raffaele Cantone, prima ancora di riscontrare oggettivamente quello che lui ha detto, io prima di tutto mi preoccupo. Seconda cosa: la società moderna, con le sue sfide, è tecnologicamente complessa; da questa complessità dipende non soltanto, come in passato, il progresso, ma la sopravvivenza stessa della società. Alla luce delle sfide climatiche, urbanistiche ed ecologiche che stiamo affrontando, il livello di competenze di chi ci governa devono essere elevate al massimo.

D: Nel libro lei scrive che "La funzione più difficile per un pm è cercare la verità in labili tracce".

R: La scelta più difficile per un pubblico ministero è se ravvisare la notizia di reato o meno. E' una scelta che presenta margini di discrezionalità elevatissimi, perché la semplice iscrizione di una notizia di reato a carico di una persona presuppone una valutazione qualificante e qualificata dei fatti che non è sempre agevole operare. E tuttavia, da questa iscrizione, nell'ambito di una cultura che proprio garantista non è, deriva l'idea che nasca a suo carico una qualche presunzione di colpevolezza. Ergo, la prima difficile scelta è se ravvisare la rilevanza penale dei fatti. Le successive scelte sono quelle dei tempi, dei contenuti e delle modalità d'indagine, che possono andare dalla scelta più elementare, qual è quella di sentire una persona offesa, a quelle più complesse, quali eseguire un'intercettazione info-telematica, ambientale, telefonica o anche una semplice perquisizione, atto traumatico: per un incensurato è l'equivalente dell'arresto per un personaggio già aduso ai rapporti con l'autorità giudiziaria in senso repressivo. Questa è una scelta anche morale per un pubblico ministero, perché il principio di proporzionalità che va attuato, nell'adeguare la gravità della misura rispetto alla gravità del fatto, prima di tutto è difficilissimo da effettuare, e poi è altamente discrezionale. "Cercare la verità in labili tracce" comporta quindi una serie di scelte che possono pregiudicare o dare invece grande efficacia all'azione penale, ma dall'altro lato, se poi l'azione penale è destinata all'archiviazione, per il pubblico ministero è l'equivalente per un medico di avere sbagliato un'operazione. Anche se le conseguenze non sono le stesse, c'è l'onore della persona che ne viene macchiato. Per fortuna, con questo Codice (in vigore dal 24 ottobre 1984) si sono fatti dei passi in avanti; attualmente, pertanto, l'informazione di garanzia -esposta, rispetto all'iscrizione, a un maggior rischio di pubblicazione, poiché è un atto che fuoriesce dalla sfera del magistrato- può essere effettuata soltanto quando il pm deve espletare un atto che prevede la presenza del difensore (un interrogatorio, una perquisizione, un sequestro). Ogni altro atto, come sentire dei testimoni o attivare delle intercettazioni, non richiede un'informazione di garanzia, anzi, non può. E questo è già un passo avanti, perché permette al pubblico ministero di valutare una notizia di reato, riducendo il danno per la persona innocente ovvero per la persona destinata, per qualsiasi motivo, all'archiviazione.  

D: Lei ha detto che per un pm un'archiviazione può essere l'equivalente per un medico di avere sbagliato un'operazione. Come ben sa, c'è una grossa polemica su questo, ovvero sulla "tenuità", nel nostro sistema, delle misure a ristoro del cittadino che ha subito un arresto ingiusto, per esempio, anche in relazione alla responsabilità personale del pm che ha commesso l'errore.

R: Esiste una zona grigia. Quando io parlo di “scelte delicate” che possono portare a una lesione della rispettabilità e della riservatezza di una persona, non faccio riferimento solo al rischio di errore giudiziario: questa “ferita” alla persona, può anche derivare da un legittimo e doveroso esercizio di certe scelte. Archiviazione o assoluzione non significa in maniera automatica colpa o errore del giudice o del pm; queste ultime possono derivare da una violazione grave delle norme di legge, da un travisamento del fatto, ma non derivano dall’aver effettuato una perquisizione che, pur in presenza dei presupposti per effettuarla, non va a buon fine e quindi, magari per l’inesistenza di altri elementi da attivare, si va all’archiviazione. Se non tutte le operazioni chirurgiche che non salvano la vita sono “operazioni finite male”, allo stesso modo non tutti i processi che non si concludono con la condanna dell’imputato sono “processi finiti male” che evidenziano una qualche colpa, errore o volontà persecutoria del pubblico ministero.

D: Nel suo libro si affronta anche il tema della paura. “Non hai paura”? le chiedono spesso, e lei risponde che «Un inquirente (pm, investigatori e giornalisti d’inchiesta), non corre più rischi di un operaio privo di formazione e degli strumenti di prevenzione degli infortuni. Statisticamente è così». Mi ha colpito l’aver inserito tra gli inquirenti anche i giornalisti d’inchiesta: un chiaro riferimento a Giancarlo Siani. Ora io mi chiedo e le chiedo: se è vero che la criminalità organizzata è cambiata, non più “lupare”, ma alta finanza e computer, è cambiato anche il giornalismo d’inchiesta? Oggi, secondo lei, uno come Siani sarebbe ancora possibile?

R: (Silenzio) Sicuramente sono cambiati i giornalisti, ma in proporzione al cambiamento totale del mondo investigativo. Negli ultimi due anni, non solo attraverso l’Anac, ma anche attraverso tutti gli altri nuovi strumenti atti al contrasto della corruzione, la lotta al crimine è stata rafforzata: la capacità di penetrazione degli investigatori nell’ambito degli “arcana imperii criminalis” è migliorata. Contestualmente si sono ridotti gli spazi di operatività dei giornalisti d’inchiesta “puri”, perché un cronista del genere non può più competere con un pubblico ministero, con la polizia giudiziaria, che molto più di prima si coordinano tra di loro. Lei sa che in materia di criminalità organizzata esistono le Direzioni Distrettuali Antimafia, esiste la Direzione Nazionale Antimafia che a sua volta è punto di contatto internazionale per quel tipo d’indagini. Questo comporta che, a differenza degli anni Settanta, difficilmente un giornalista possa scoprire lui ciò che l’Autorità Giudiziaria non riesce a far venire fuori. Però questo non significa che gli spazi si siano ridotti. Io non considero affatto un fenomeno deteriore quel tipo di giornalismo che segue le indagini giudiziarie: se questo tipo di lavoro viene fatto con profondità e competenza…

D: …e autonomia…

R: Eh! Lo stavo per dire! Mi ha tolto la soddisfazione di dirlo per primo! (sorride) Sì, Autonomia, e si puo’ ancora fare con autonomia! Con queste premesse, quindi, si tratta di un’opera insostituibile che può fare un giornalista, per porre in correlazione l’esercizio dell’amministrazione della giustizia con il popolo, che alla fine ne valuta, non solo la legittimazione, ma anche la condivisibilità dei mezzi, dei modi e dei risultati. C’è un collegamento legittimo –quando non è illecita fuga di notizie- tra l’amministrazione della giustizia e il cittadino, che consente a quest’ultimo di capire se la giustizia viene amministrata correttamente, e quindi farsi anche un’idea preliminare sull’eventuale incidenza sulla dignità dell’indagato. Insomma, se la stampa opera in maniera trasparente e in autonomia, consente al cittadino di farsi un’idea. L’informazione è fondamentale soprattutto per una cosa: per la partecipazione alla vita democratica del Paese. Il cittadino deve essere portato a conoscenza anche degli aspetti, quando sono pubblici e conoscibili, delle indagini penali, perché altrimenti non potrà mai esercitare in maniera qualificata e consapevole il suo diritto di voto. Purtroppo i livelli attuali di penetrazione della criminalità nelle istituzioni (giuridiche o sociali) sono talmente complessi che il rischio che fatti ascrivibili alle istituzioni rivestano una rilevanza penale è estremamente elevato. Estremamente elevato. E sul grado di legittimazione derivante dal principio di legalità nell’ambito della pubblica amministrazione, si gioca anche la qualità della partecipazione democratica del cittadino, che si esercita attraverso il voto. Pertanto in quest’ottica la funzione della stampa è delicatissima, se esercitata in autonomia, se cioè non segue la magistratura in maniera passiva, col famoso “copia e incolla”; e sempre che non persegua lo scopo opposto, ovvero di opporsi all’azione giudiziaria senza aver un’approfondita conoscenza dei fondamenti dell’esercizio di tale azione, ovvero anteponendo le proprie opinioni personali rispetto a quanto oggettivamente accertato. Per me fare il giornalista d’inchiesta in ambiti giudiziari richiede una qualificazione pari, se non addirittura superiore, a quella di un magistrato. Perché si tratta di valutare in autonomia l’azione della magistratura (quando è possibile apprenderla perché cade il segreto d’indagine), ma poi tradurla in termini comprensibili al cittadino: questo è ancora più difficile.

D: Il mondo è cambiato e lei ha ragione. Mi viene da pensare che oggi uno come Siani forse sarebbe stato innanzitutto bersagliato da querele temerarie, intimidatorie. Oggi infatti se ne fanno molte “a prescindere”. E per la libera stampa è un problema.

R: Premesso, ovviamente, che Giancarlo Siani controllava scrupolosamente la fondatezza delle sue deduzioni e delle sue affermazioni, se oggi esistono le querele “a prescindere” ai giornalisti, beh, lo stesso accade con le denunce “a priori” ai pubblici ministeri. E il 99,9% di queste sono infondate. E però c’è quello 0,1%, diciamo, che risulta fondato. Il fenomeno della corruzione nella magistratura esiste e non si può assolutamente sminuire. Un magistrato che ruba una mela è equiparabile a un comune cittadino che ruba un’automobile.

D: Però le chiedevo se oggi uno come Siani potrebbe esistere.

R: Sicuramente sì.

D: Chi potrebbe oggi essere un suo erede? Glielo chiedo perché molti indicano in Roberto Saviano l’esempio virtuoso di quanto stiamo dicendo a proposito del giornalismo d’inchiesta. Tuttavia, ci sono anche molte polemiche riguardanti trasmissioni televisive come “Gomorra”, a proposito di un eventuale e pericoloso “effetto emulazione” che queste potrebbero magari esercitare nei confronti dei più giovani, in particolare. In una delle prefazioni del suo libro, si fa riferimento a quel politico campano che avrebbe adottato come slogan un “motto” dei protagonisti di “Gomorra”. Alcune produzioni televisive e cinematografiche, in particolare, a mio modo di vedere non trattavano la criminalità organizzata in termini di denuncia, ma di spettacolarizzazione, quasi “romantica”, della figura del criminale. Cosa ne pensa?

R: Quando si mostrano dei delitti, l’effetto emulazione si manifesta nei confronti delle persone immature. Nelle persone di media maturità al contrario si verifica un effetto consapevolezza. L’effetto emulazione, a questo punto, può verificarsi anche nel leggere “I Tre Moschettieri”: dar vita a un duello solo perché si è urtato la spalla di qualcuno...

D: … è un episodio che oggi chiameremmo di “bullismo”.

R: Esatto! E’ un omicidio che avviene perché una persona ti ha sfiorato. E allora dovremmo proibire anche “I Tre Moschettieri”?! Pensiamoci bene. Dovremmo proibire tutti i film in cui si vedono dei delitti le cui colpe, per ragioni di trama, non sono afferibili al solo carnefice? Salvo gli eccessi apertamente glorificatori del crimine, che possono esserci stati in qualche canzone di neomelodici, escludo l’effetto emulazione nei casi di cui stiamo parlando. Magari ci può essere stato a proposito di alcuni film di diversi anni fa in cui il contrabbando criminale su larga scala, esercitato da “uomini d’onore” (che addirittura si opponevano a una criminalità più “sanguinaria”), veniva presentato come un’esigenza per una certa parte del popolo napoletano. In “Gomorra” non vedo una glorificazione. Vedo semplicemente l’esigenza di rendere appetibile la trama, la visione dello sceneggiato, ma alla fin fine non viene assolutamente glorificata la finalità criminale di controllo del territorio. La funzione di cose come “Gomorra” è fondamentale, anche se, certo, l’immaturo può vederci quello che vuole, ma a questo punto dovrebbe calare una censura totale sulla giallistica e sull’horror! In queste fiction invece io invece vedo la possibilità, da parte del cittadino, di capire che il fenomeno criminale può essere contrastato: alla fine il criminale viene sempre preso o ucciso, e quindi non vedo una conclusione “in gloria” dello stesso. Vedo invece una vita sconsiderata, improntata a principi immorali, che alla fine non paga. Salvo, ripeto, eccezioni, sia in musica che nel cinema.

D: Ma è pur vero che il Tony Montana interpretato da Al Pacino in “Scarface”, criminale che diventa ricchissimo col traffico di droga e che alla fine muore ammazzato, nei ghetti neri e portoricani statunitensi pare abbia sortito comunque un effetto emulazione notevole, tanto da essere spesso citato anche nei brani di “Gangsta Rap” (un genere musicale in cui sovente ci si è ammazzati a vicenda).

R: Sì, ma questo accade in quelle persone che già sono votate a quel tipo di vita.

D: E in alcuni quartieri di Napoli non ce ne sono, forse?

R: Sì, ma io penso che uno si sceglie gli idoli che corrispondono al proprio intimo sentire. Certi personaggi non creano un mito dal nulla.

D: E quel politico che ha richiamato un motto criminale di Gomorra nel suo slogan?

R: Sulla politica e sui politici non mi pronuncio.

D: Ma è scritto in prefazione al suo libro (per la precisione, nella introduzione di Ragone e Sannino, a pagina13: «Un candidato nella lista “Più Campania in Europa”, per farsi pubblicità ha imitato in uno spot don Pietro Savastano, il boss di “Gomorra”: “Mo ce ripigliamm’ tutt’ chell’ che è nuost’. Sanità, rifiuti, ma soprattutto dignità e rispetto”. Poi ha spiegato che si trattava solo di una provocazione e che lui ha ben presente il principio di legalità. Tuttavia l’episodio è indicativo di un clima, di una mentalità e di un linguaggio che indicano un modo» - ndr).

R: Sì, ma non l’ho citato io.

D: Tornando al discorso della paura, lei a un certo punto dà una definizione del coraggio: «… deriva dalla compensazione della paura con il sentimento del dovere e la dignità dai quali nasce la vergogna di aver paura, che costringe all’azione. (…) La sensazione di chi ha troppa vergogna di aver paura per restare inattivo». Lei dice anche che questa definizione l’ha data in risposta a un avvocato lucano che le chiedeva se avesse mai avuto paura .

R: Circa un anno e mezzo fa si svolse un convegno a Lagonegro, e l’allora presidente del consiglio dell’ordine, avvocato Gherardo Cappelli, mi disse che in alcuni casi, leggendo gli atti, aveva ammirato il pubblico ministero per il suo coraggio. E contestualmente mi chiese se avevo mai avuto paura e se nel caso come la vincevo. Io ci pensai un attimo e risposi che è umano aver paura, altrimenti significherebbe non aver freni inibitori, non aver senso della logica, non avere consapevolezza delle conseguenze che le proprie azioni possono portare. Chi non ha paura non prova nemmeno affetti e amore, non è umano. Nel libro cito un esempio: c’era un certo personaggio non tanto gravato, rispetto ad altri che erano la mia priorità, da fattispecie “urgenti”; tuttavia, ci era stata fatta arrivare la notizia che se fosse stato toccato, l’attentato nei miei confronti –che sapevo programmato da tempo- sarebbe scattato immediatamente. E qui entrò in gioco la “vergogna di aver paura”: l’azione di giustizia non può essere limitata dal rischio che corriamo, ma dev’essere portata avanti. Pertanto in quel momento fui indotto a fare ciò che non era la mia priorità (avendo molto altro di cui occuparmi prima), e pertanto giunsi alla conclusione che questa persona necessariamente andava arrestata subito. Non si poteva lanciare all’esterno il messaggio di una Giustizia che si fa condizionare da convenienze personali. Al contrario, il personaggio in questione si sarebbe sentito rafforzato nell’apprendere che le sue minacce avevano prodotto l’effetto desiderato. Guardi, è proprio ciò che non è stato fatto dallo Stato nella trattativa Stato-Mafia.

D: A microfoni spenti abbiamo parlato di musica e ora anche di cinema. Ma un magistrato come lei a quale percentuale della sua vita deve rinunciare?

R: Innanzitutto deve porsi alcune domande: “Quello che sto facendo sono in grado di farlo?”, e poi: “Sono in grado di produrre dei risultati?”. E poi ancora: “Ne vale la pena”? In caso di risposte affermative, deve quindi domandarsi: “E la mia vita VALE il piatto della bilancia opposto?”. Nel mio caso (come in quello di altri con cui ritengo di aver affinità operativa) la risposta è “Sì”. Rispetto a quei risultati la mia vita non conta assolutamente nulla. In questo lavoro, fermo restando che le forme sono indispensabili, il distacco totale dalla gravità dei fatti spinge all’inerzia: indagare bene significa lavorare moltissimo, dormire poco e male, significa alzarsi e prendere appunti nel cuore della notte. E per lavorare molto ci vuole una forte motivazione, e questa non è certo quella che “le carte devono stare a posto”. Questa non è passione.

D: Qual è il momento di maggiore soddisfazione per un pm? Quando una propria tesi investigativa trova conferma in una sentenza? Quando s’incontra lo sguardo di una vittima o di un familiare che ha ottenuto giustizia?

R: Le devo confessare che per me ciò accade quando gli avvocati della difesa si complimentano. E’ la garanzia definiva che hai lavorato correttamente. Guardi, la nostra è una funzione di garanzia: il pubblico ministero serve affinché lo Stato non prevarichi il cittadino. La funzione primaria del processo è infatti quella di garantire che il processo stesso sia giusto. In secondo luogo viene il risultato.

D: Quando un inquirente, magistrato o poliziotto che si è occupato ad alti livelli di criminalità organizzata viene da queste parti, noi ci chiediamo sempre sa sia solo un caso.

R: Per quanto mi riguarda penso di sì, che sia un caso.

D: Il film che la rappresenta?

R: Senza dubbio “Profumo di Donna”, nella versione americana con Al Pacino.

D: La canzone?

R: Moltissime canzoni dei Beatles e dei Rolling Stones.

D: Il libro?

R: In questo momento mi viene in mente “Delitto e Castigo” di Dostoevskij. Mi piacciono i classici, Shakespeare, Sofocle, e ci metto dentro anche Eduardo, che a mio avviso ha proprio la statura di uno Shakespeare.