- Redazione
- Sabato, 12 Aprile 2025 07:24
CLIKKA SULLA FOTO PER GUARDARE IL VIDEO
di Walter De Stradis
Se un attore/regista americano dice in tv che la Basilicata è piena di gente meravigliosa e ricca di tradizione, i nostri politici subito applaudono e si commuovono; ma se qualcuno, qui sul posto, si dà da fare concretamente in quella stessa direzione, può incontrare serie difficoltà.
La strenua lotta della professoressa Patrizia Del Puente, per la salvaguardia, la codificazione e la diffusione dei dialetti lucani, è un esempio di quello che può (non) accadere nella nostra regione. Napoletana, folgorata dalla nostra terra (ove ha deciso di venire e di restare), la docente di glottologia e linguistica dell’Unibas è infatti anche la direttrice di quel Centro Internazionale di Dialettologia che ora combatte tra la vita e la morte
«Il Centro Internazionale di Dialettologia ha due anime -ci spiega- La prima dialoga con le accademie di tutto il mondo; la secondA è sociale-territoriale e la maggior parte dei cittadini lucani conosce il nostro lavoro; salvaguardare, valorizzare le lingue della Basilicata. Tutta l’Italia è ricca da questo punto di vista, ma la Basilicata lo è un po’ di più, è un vero unicum».
d - Lingua e dialetto sono la stessa cosa?
r - Assolutamente sì, dal punto di vista strutturale. L’unica differenza che possiamo rilevare è l’estensione territoriale su cui viene usata: una lingua nazionale viene parlata in un ambito più ampio rispetto a una lingua locale.
d - Da quanto tempo esiste il CID?
r - Come CID esiste dal marzo 2018, ma si tratta comunque del prosieguo del progetto A.L.Ba (Atlante Linguistico della Basilicata – ndr) che ha la sua origine nel 2007.
d - Che tipo di “inquadratura” ha il Centro?
r - Il suo statuto è stato creato dagli impiegati dell’Unibas. Si tratta di un’associazione no-profit, senza profilo giuridico. Ovviamente, però, in quanto tale, il CD deve essere “costituito”; pertanto è stato costituito e fondato dall’Unibas, come recita l’atto fondativo.
d - All’atto pratico, qual è l’utilità del CID? Perché studiare e salvaguardare i dialetti, in un mondo che va sempre più veloce, sempre più a mezzo social, e in cui ogni giorno occorre adattarsi a nuovi linguaggi?
r - Normalmente, quando un giornalista mi pone questa domanda, io do una risposta piuttosto stentorea. A lei magari l’argomenterò un po’ di più (sorride). “A cosa servono le radici alle piante?”: questa è la mia risposta stentorea. Tuttavia, ciò che diceva lei, è proprio il motivo per cui, oggi, per le nuove generazioni, è fondamentale conoscere il dialetto. Se non si conosce il proprio passato, non si può vivere il presente e interpretare un futuro. Questo è assodato. Un giovane che vuole, realmente, conoscere la storia vissuta dalla sua comunità, non può ignorare il dialetto. Perché? Perché qualsiasi altro documento (o monumento), in quanto datato, gli racconterà UNA PARTE di quella storia. Il dialetto, al contrario, comprende TUTTA la storia: per poter parlare di un oggetto, ad esempio, prima occorre dargli un nome; in una comunità, tutto quello che abbiamo incontrato, vissuto e che è stato importante, si ritrova nella lingua. Perdere quella lingua, significa perdere quella storia non narrata. E nella maggior parte dei nostri paesi,che non hanno documenti storici o architettonici, è un discorso fondamentale.
d - E come si fa a realizzare il recupero di una tradizione che, appunto, è in gran parte orale?
r - Ci sono due canali. Se il CID andrà avanti, un canale fondamentale sarà quello degli emigrati all’estero: questi ultimi, proprio perché non hanno avuto contatti con la lingua italiana, conservano un dialetto molto più arcaico. Pertanto, si potrebbe realizzare una piattaforma ove riversare le testimonianze, parlate, libere, di questi emigrati, per recuperare altri pezzi di storia. Per quanto riguarda, invece, il lavoro fatto dal CID qui nella nostra regione, noi ovviamente dialoghiamo con i “parlanti” più anziani, che sono i depositari più attendibili di quella cultura a cui stiamo facendo riferimento. Ma ben si capisce che se io non uso più un certo tipo di vaso da olio o di caraffa, a lungo andare ne perderò anche la parola; e quel pezzo di storia non lo si recupera più. E allora, a questo punto, io devo FERMARE questo pezzo di storia, ed è per questo che noi, anno dopo anno, pubblichiamo “L’Atlante Linguistico della Basilicata”. Però tutto questo non basta, perché significa mettere le nostre lingue dentro un sarcofago.
d - E allora qual è il passaggio successivo?
r - Insegnare, come già facciamo, ai “parlanti” e alle “parlanti” le loro stesse lingue.
d - Detta così sembra un controsenso.
r - Mi rendo conto. Ma non lo è. Noi andiamo nei paesi, ovunque ci chiamino, nelle scuole, a insegnare ai ragazzi il LORO dialetto. Se lei magari, nel suo dialetto, si riferisce al “piede” dicendo “pèrë” e ai “piedi” dicendo “pièrë”, è perché lo fa in automatico, a seguito di un apprendimento “di riflesso”: ma in questo modo, a mano a mano, le “regole” si perdono, perché lei non ne è consapevole. Noi invece facciamo toccare con mano proprio le regole fonetiche, sintattiche, morfologiche. E alla fine rimangono sorpresi.
d - Ecco, mi interessa capire proprio questo, perché la metodologia che lei mi ha descritto ricorda un po’ quella del recupero della tradizione musicale orale (con gli “informatori” in luogo dei “parlanti”). Alcuni artisti che suonano la musica popolare, però, ci dicono che i giovani lucani si “vergognano” un po’ di certi vecchi canti, perché ricordano la povertà. Accade anche col dialetto?
r - Ci sono giovani e giovani. Ovviamente, dopo decenni di lavaggio del cervello con banalità prive di valore intrinseco (“il dialetto è la lingua degli ignoranti”, “è legato alla povertà” etc.), qualche volta i giovani sono un poco più restii a servirsi del dialetto e a esserne orgogliosi. Ma non sempre. Ci sono molti giovani, infatti, che ci chiamano per fare progetti. Ne cito uno per tutti: nella frazione di Agromonte Magnano di Latronico, i giovani hanno voluto creare una sorta di attrattore turistico fondato sule “cose coselle”, gli indovinelli della tradizione. E così hanno chiesto a noi di aiutarli nella trascrizione, avvalendoci dell’ “Alfabeto dei Dialetti Lucani” (siamo l’unica regione che ha codificato un documento del genere); un artigiano locale, a quel punto, ha creato delle maioliche e delle ceramiche su cui disegnare le “cose coselle”, completate da relativo QR code e trascrizione in dialetto curata da noi. Questo percorso per turisti è stato voluto e creato da giovani.
d - Lei prima ha detto «SE il CID andrà avanti». Cosa succede? Si può dire che il Centro vive, anzi “campa”, di finanziamenti regionali. Vengono concessi, ma con quale frequenza?
r - Inizialmente il finanziamento era annuale, poi ce n’è stato uno triennale e l’ultimo di diciotto mesi. Scade a ottobre, fra pochi mesi.
d - Che notizie avete? Ci sarà una proroga?
r - Non sappiamo nulla. Il presidente di Quarta commissione consiliare, che mi ha accolto anche per una audizione, mi ha detto che “sta lavorando” alla cosa, ma è un mese che non lo sento; credo ci siano anche dei tempi burocratici.
d - Mi pare di capire, tuttavia, che un’ennesima proroga sarebbe un ulteriore “tampone”, mentre voi da tempo chiedete l’istituzionalizzazione del CID. Cosa comporterebbe?
r - Comporterebbe ciò che hanno provato a proporre novantotto consigli comunali nella scorsa legislatura: creare una legge regionale ad hoc per far sì che il CID diventi un organismo regionale, come accade in Friuli e in Sicilia. In questo modo, si stabilizzerebbe la situazione dei tre, ultimi (erano sette), ricercatori che stanno facendo “resistenza”.
d - Lei percepisce un compenso?
r - Assolutamente no, niente rimborsi di benzina né altro. Sono assolutamente a titolo gratuito, anzi, ci rimetto; e non perché sono brava, ma perché lo studio delle lingue mi dà tantissimo.
d - Cosa, in particolare?
r - Una grande umanità, rapporti di affetto con tantissime persone e sopratutto imparo tantissimo.
d - Quali le strade per istituzionalizzare il CID?
r - A mio avviso sono due. Una è la la legge regionale a cui facevo riferimento, ma che richiederebbe un po’ più di tempo; l’alternativa è che la Regione ne faccia una sua Fondazione (come accaduto in altre situazioni), magari con la partecipazione di qualche comune più virtuoso, o delle Province.
d - Se la sente di lanciare un appello in dialetto lucano?
r - «Uagliò, c’amma movere, pecchè senno’, ‘o CID, è fernut’!»*. Ho usato un dialetto dell’area della Val D’Agri, dove stiamo tenendo i corsi nelle scuole.
*La trascrizione, sicuramente lacunosa, è a opera dello scrivente.