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di Walter De Stradis

 

 

 

Il sessantatreenne Federico Valicenti, dall’alto anche delle sue numerose e prestigiose ospitate televisive (“Uno Mattina”, “La Vita in diretta”, “La prova del cuoco”, “Masterchef”) è lo chef lucano più noto a livello nazionale. Il segreto non è solo il gusto incredibile dei suoi piatti, serviti al famoso “Luna Rossa” di Terranova di Pollino (Pz), ma anche le ampie spruzzate di “cibosofia” con cui sono “conditi”.

d: Come giustifica la sua esistenza?

r: Dopo quarant’anni di carriera, ancora non saprei dire come nasce Valicenti lo chef. Si tratta probabilmente di uno di quei percorsi nati quasi senza consapevolezza e poi progrediti col tempo.

d: I suoi non erano dunque del mestiere?

r: No e nemmeno io. Sono un geometra mancato e non sapevo friggere un uovo. Poi aprii il ristorante quasi per caso con un amico, e via via mi ci appassionai. Parlando coi contadini e andando “a fare la spesa” in campagna appresi che il cibo non è soltanto merce, ma anche cultura. E l’ho portata in tavola. Il coraggio più grande forse è stato quello di rimanere in un paesino come Terranova: oggi le cose sono migliorate un po’, ma quarant’anni fa era davvero arretrato.

d: Lei si definisce dunque “cibosofo”.

r: Significa raccontare il territorio, la propria cultura, col cibo. D’altronde queste lande, dal panorama bellissimo, ci consentono ancora di vivere veramente a contatto con la natura.

d: Dietro i piatti c’è una storia, una tradizione che lei racconta agli avventori.

r: La Basilicata io la definisco un “petit heritage”, un piccolo scrigno che una volta aperto rivela cose incredibili. Siamo una regione arcaica, antica, straordinariamente ricca di prodotti ed EMOZIONI gastronomiche; tuttavia bisogna rifuggire un po’ dalla cosiddetta “cucina povera”, che io considero un falso ideologico, semplicemente perché i poveri non mangiavano. Io vado alla ricerca di piatti buoni, di piatti antichi, per riformularli e portarli in tavola. E’ bellissimo girare la Basilicata, per poi ritrovarsi ad Avigliano con la “carchiola” e rivisitarla; o a Irsina e gli altri paesi del materano per incontrare “’u callaridd” che noi qui chiamiamo “la pignata”.

d: Lei ritrova cose che mangiavano quindi anche i ricchi.

r: Certamente sì. La cucina è una sola, quella buona. Andare a Matera e mangiare la “cialledda” per me è riduttivo, mi metto così alla ricerca dei piatti antichi materani (i cardoncelli cacio e uova, il galletto ripieno di interiora con lo zucchero, il raviolo ripieno di ricotta) ed è fantastico.

d: Lei ha scritto un libro che s’intitola addirittura “Dalla tavola lucana al Paradiso”. Quali sono le “stazioni” intermedie?

r: I santi: a ogni ricorrenza corrispondeva un piatto, un mondo antico che abbiamo perso. A Maratea il giorno di san Biagio venivano mangiate le alici fritte. Il motivo? Mi spiegarono che il Santo aveva tolto la lisca di un pesce dalla gola di un bambino. A Satriano di Lucania, il giorno della Madonna delle Grazie si mangiava il coniglio ripieno, vicini alla cappella della Madonna, e infatti l’icona bizantina raffigura Maria con un coniglio bianco in braccio. Parliamo quindi sempre di devozione. La cucina della Basilicata è poi resa straordinaria da tutti i popoli che l’hanno visitata o ci hanno vissuto, ed è una cosa che non va nascosta, ma esaltata (ad esempio in alcune zone in cui ci sono stati i Longobardi, nella salsiccia –invenzione nostra- non c’è il finocchietto, bensì il coriandolo). Noi Lucani forse siamo i profeti dell’uso delle spezie.

d: Eppure forse noi non abbiamo piena coscienza di tali ricchezze, portati come siamo sempre a sminuire tutto.

r: Sarebbe facile citare Sinisgalli e dire che il Lucano si nasconde sempre. Invece io penso che noi facciamo parte dei Sud del Mondo, ove un po’ dappertutto ci si piange addosso. Scherzosamente io dico spesso: se volete scoprire il lucano, dite a qualcuno che vi fa male l’unghia del piede; se è lucano, vi risponderà che a lui invece fa male tutta la gamba! (risate) Bisogna uscire da questa mentalità, anche gastronomicamente! Guardi, io ho litigato con alcuni amici sommelier che dicevano che l’Aglianico è “il Barolo del Sud” oppure che il rafano è “il tartufo dei poveri!... ma chi l’ha detto? Queste sono ricchezze incredibili! Ma non sappiamo ancora valorizzarle. Dal canto mio sto facendo una pasta da vent’anni (si chiama il “mischiglio”), che fanno tra Teana, Fardella e Calvera: è composta da farine di cereali e legumi e potrebbe diventare l’emblema della dieta mediterranea. Tuttavia deve essere legata a quei territori come valore, e non come qualcosa di folkloristico.

d: Lei è andato spesso in tv, fra le varie trasmissioni è stato ospite anche di “Masterchef”. Com’è stata quella avventura? Si è mai chiesto perché proprio lei e non altri?

r: Anche io chiesi “perché io?” quando mi telefonarono, e quelli risposero “…e perché lei no?”. Il fatto è che io vivo a Terranova, un po’ al di fuori delle direttrici turistiche e all’epoca la Basilicata non aveva ancora la visibilità datagli da Matera 2019, ma loro mi spiegarono che avevano fatto un’inchiesta fra i giornalisti eno-gastronomici e nel 95% dei casi era saltato fuori il mio nome, come oste che fosse anche capace di divulgazione. Per me fu un grande onore essere l’unico chef del Sud chiamato a portare un piatto, in quel caso la “trippa risottata”, un piatto di derivazione spagnola che in dialetto chiamiamo “l’ingrattonata”.

d: Il segreto del suo successo, insomma, qual è?

r: Forse la capacità di dar vita a una narrazione del piatto.

d: E il commensale VUOLE sapere?

r: Assolutamente sì. Oggi si chiama “storytelling”, mentre una volta erano semplicemente “i fattariell”. Noi Lucani sappiamo raccontare il nostro territorio. Se lei guarda nel suo piatto (un antipasto composito –ndr), c’è un po’ tutta la Basilicata. C’è la “scapecia” di trippa, sbollentata in acqua, con aceto e vino bianco, condita con salsa di tartufo nero, salvia e menta; il “peperone crusco” (che io definisco “Patrimonio dell’Umanità” senza aspettare l’Ok dell’Unesco); la “carchiola” da Avigliano, questa pizzetta di farina di mais arrostita, che io faccio con uovo, funghi porcini e una fetta di guanciale del nostro maiale; una patata, con baccalà, cipolla, uva sultanina, fichi secchi, olive nere, noci, mollica di pane, peperoni, uova (nella tradizione, anch’essa devozionale, delle “nove cose”); e poi infine c’è la “ciambotta” (pane ripieno di peperoni, pomodoro, uovo e salsiccia), la colazione del mulattiere, del contadino, del pastore, che arriva qui probabilmente dai Balcani, nel 1500 circa. In cima alla “ciambotta” trova una polpetta, che in Basilicata viene chiamata in 11 modi diversi: cucul, cuculicch’, cucuvell, rumuledd, patatell, paddott, padducc, palluccell, etc… (l’estensore chiede venia per gli eventuali errori ortografici – ndr)

d: Lei ha parlato di “ciambotta”, termine che qui da noi –ahimè- sovente viene usato per descrivere certe “modalità” della politica nostrana.

r: Ci sono tante persone capaci, tuttavia la politica non sta spiegando bene i problemi delle aree interne. Io in queste zone ho dato tutta la mia vita (a Terranova sono stato anche assessore), anche per richiamarvi persone interessate, ma la politica in Basilicata è sicuramente malata di qualcosa. Probabilmente di troppa autoreferenzialità: non ascolta i territori dell’entroterra ed è un peccato.

d: Qual è il “boccone più amaro” da mandare giù per uno chef come lei?

r: Vedere che spariscono e chiudono attività di pastori, agricoltori, contadini…le micro-aziende. Venendo a mancare loro, spariremo anche noi pian piano, perché se non abbiamo chi ci dà i prodotti, è finita. Lo spopolamento delle aree interne è anche questo.

d: Che bilancio possono fare i ristoratori lucani dell’estate appena trascorsa?

r: E’ stato un momento bellissimo, abbiamo lavorato tantissimo e scoperto che la gente AMA venire in questi luoghi. Oggi il turista è cambiato, viene per sentire, ascoltare, per fare una “full immersion”, e noi siamo i paesi della “slow life”, della vita lenta, e io vedo gente rapirsi al racconto degli anziani nelle piazze, presa nel recupero dei sapori e delle tradizioni. Questi paesi POSSONO essere il futuro, ma solo se mantenuti così come sono.

d: Tuttavia proprio a Terranova, in cui ci sono alcuni degli ultimi musicisti, virtuosi e costruttori di zampogne (Leonardo Riccardi, Pino Salomone…) non si è riusciti a creare, chessò, un “polo della zampogna”.

r: Anche quando si suonava si beveva e si mangiava, c’è dunque tutto un mondo di correlazioni da far scoprire: le aree interne non sono “povere”, bensì ricchissime, e non vanno distrutte mettendoci cose che non c’entrano nulla (fabbriche, etc): vanno esaltate così come sono. Certe volte non li capiamo quando vengono qui a parlarci: adesso vogliono trasformare questi paesi in “contenitori per pensionati”, come nel Portogallo, ma qui mancano le infrastrutture più elementari e se ti viene un infarto non sai dove andare. Però abbiamo questo grande mondo, quello del cibo e delle tradizioni: quali sono gli strumenti che debbono darci? Poter vivere qui.

d: Se potesse prendere Bardi sottobraccio cosa gli direbbe?

r: (ride). Quello che magari non sa e cioè che in questi paesi si vive stupendamente bene, se SI RIESCE a farci vivere le persone. Tanti giovani vorrebbero tornare qui, ma non possono venirci “tanto per”. Io ho avuto proposte a New York, ho aperto ristoranti a Roma, ma ho capito che non sono i soldi quello che contano, quanto la VITA, lo “slow”, far vivere la mia Basilicata al di fuori dei suoi confini. E sa qual è il bello della ristorazione? Che è meritocratica al massimo.

d: Il film che la rappresenta?

r: “Il pranzo di Babette”, “La Grande Abbuffata”, ma anche “Vatel”, con Depardieu.

d: Il libro?

r: “Il banchetto” di Orazio Bagnasco. Ma il libro migliore è sempre “Dalla tavola lucana al Paradiso!” (ride).

d: La canzone? “Luna Rossa”?

r: (ride) Beh, per forza!

d: Fra cent’anni cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?

r: “Ha vissuto”.