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di Antonella Sabia

 

 

 

 

Fioriscono una sola volta all’anno nel deserto cileno, ma in quel giorno rendono la superficie arida, una distesa di colori. Sono le rose di Atacama, che danno anche il nome ad un libro di Luis Sepulveda, storie di persone che hanno saputo resistere con coraggio alle tirannie della vita, a cui l’autore ha voluto regalare un po’ della visibilità che nessun libro di storia gli avrebbe mai donato. Non è un caso la scelta del nome per l’Associazione potentina “Le Rose di Atacama”, nata ormai diversi anni fa dalla voglia di mettere insieme persone con diversi percorsi di vita. “La nostra associazione si è costituita nel 2011, con la forza di sole donne (che ricoprono ruoli apicali nella stessa) con esperienze di vita diverse, tra queste, donne straniere emigrate dal loro paese di origine, ma anche storie come la mia, che dopo tanti anni di lavoro dipendente e un lavoro certo alle spalle, decido di guardarmi intorno e fare altro. Un vero e proprio luogo di confronto che con il tempo è diventato un laboratorio di progettazione”, ci racconta la presidente Anita Sassano.

d: Con quali obiettivi è nata l’associazione?

r: Quello di favorire l’integrazione, la maggior parte dei soci tra cui anche i fondatori erano tutte persone straniere, provenienti da altre realtà. Siamo nati con l’obiettivo di occuparci di iniziative di promozione sociale autofinanziate, raccolta fondi, oltre a essere un luogo di confronto tra le idee. Nel tempo, parlando anche di immigrazione e integrazione, abbiamo avviato casualmente questo percorso di gestione dei progetti, nel 2013, infatti, siamo stati la prima associazione ad accogliere i primissimi 15 migranti quando arrivavano con i barconi.

d: Come è stata questa esperienza all’inizio?

r: È emotivamente coinvolgente e forte, i primi che arrivarono erano messi molto male, sia fisicamente che psicologicamente, siamo dovuti intervenire in alcuni casi anche con gli psicologi. C’è poi tutto l’ambito dei minori non accompagnati, mandati via dai genitori in cerca di fortuna, che accogliamo sin dal 2014 in una struttura.

d: Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato?

r: La difficoltà iniziale è stata quella di crearsi un nome, farsi conoscere: c’è da dire comunque che l’associazione è composta da diversi professionisti, e abbiamo messo in campo tutte le nostre qualità, la capacità di creare relazioni, che ci hanno dato la possibilità di accreditare l’associazione presso gli enti pubblici e altri soggetti che ci hanno dato fiducia. Ritengo che una delle nostre migliori qualità sia la voglia di non lavorare mai da soli, in genere creiamo una rete, perché per noi sono fondamentali le risorse umane, nei vari progetti c’è posto per tanti professionisti: docenti, psicologi, avvocati ecc.

d: Si parlava di storie che si intrecciano: quante hanno segnato il vostro percorso?

r: Le nostre sono quasi tutte storie belle, abbiamo raggiunto tanti successi e ci hanno dato tanti riconoscimenti. Facciamo parte anche dell’UNAR, ente nazionale contro il razzismo, con il quale ci occupiamo di politiche discriminatorie e pari opportunità.

d: Si parla spesso della difficoltà dell’integrazione di queste donne e questi uomini nel nostro contesto sociale e lavorativo, lo può confermare?

r: In linea generale è una cosa piuttosto vera, nello specifico posso dire che siamo stati fortunati oltre che bravi noi. Non abbiamo mai avuto alcun problema nella gestione e nell’accoglienza dei migranti, abbiamo favorito l’integrazione di tanti ragazzi che abbiamo aiutato ad inserirsi lavorativamente, altri continuano a lavorare con noi. Questa cosa quindi io non l’ho vissuta direttamente, ma sicuramente ci sono delle difficoltà che cerchiamo di abbattere, a partire dal problema linguistico, tant’è che uno dei nostri progetti riguarda appunto l’apprendimento della lingua italiana. Tra l’altro, una volta imparata la lingua, talvolta sono anche avvantaggiati rispetto ai ragazzi italiani poiché molti di loro conoscono oltre ai dialetti del loro paese di origine anche inglese e francese, addirittura alcuni anche l’arabo.

d: In questi 10 anni, cosa è cambiato?

r: La nostra accoglienza era diversa, non ci limitavamo alle pratiche burocratiche e alla prima accoglienza, ma andavamo oltre. Questa cosa abbiamo dovuto lasciarla perché ci siamo resi conto, con il decreto Salvini, che le restrizioni economiche non ci permettevano di lavorare più bene. Premetto che chi vuol far bene questo lavoro ovviamente non deve pensare di arricchirsi, perché ciò che si riceve va utilizzato per l’accoglienza, per i bisogni delle persone, ma anche per pagare dignitosamente gli operatori notturni e le risorse umane coinvolte. È per questo che noi ad un certo punto coscientemente ci siamo tirati fuori: ci teniamo ad essere riconosciuti per il lavoro fatto in un certo modo; a nostro discapito e a discapito delle persone che abbiamo dovuto licenziare, abbiamo scelto di non fare più accoglienza.

d: Quali sono i progetti in campo oggi?

r: Sta per entrare nel vivo un progetto che abbiamo presentato lo scorso agosto, alla presenza del Prefetto di Potenza, che si svolgerà tra Senegal e Gambia, MOVE-ment (migration –opportunitè – voyager – employment), che punta all’integrazione e alla migrazione legale dai quei attraverso il ricongiungimento familiare o percorsi di formazione linguistica e professionale, e noi saremo fisicamente lì. C’è poi il progetto A.LI.BAS.,con cui organizziamo dei corsi in regione per i ragazzi, per un primo approccio alla lingua italiana e per avviarli ai mestieri. L’ultimissima esperienza che ci vede coinvolti è nella gestione dell’accoglienza dei migranti stagionali, noi ci siamo aggiudicati una gara, nell’ambito di un avviso dedicato ai percorsi di uscita dallo sfruttamento cofinanziato dal Ministero del Lavoro, ci occupiamo della parte del sociale con tutto il nostro team composto da diverse figure professionali (psicologi, assistenti sociali, educatori,mediatori), ma anche di garantire il trasporti ai migranti.

d: Nella nostra regione si sente spesso di associazioni che si fanno la guerra, mentre prima mi ha colpito molto il passaggio sul vostro interesse a fare rete.

r: In Basilicata viviamo questo dramma. Ognuno pensa solo al suo orticello, mentre a noi piace contattare altre associazioni per creare una sorta di partenariato. È importante conoscersi, cercare di unire le forze e collaborare, per creare e portare avanti dei progetti completi. L’integrazione è possibile.