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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Dietro le lenti ha gli occhi sottili, su un volto roseo incorniciato da una leggera e curata lanuggine grigio-bianca.

Cinquantun anni, ingegnere, una seconda laurea in economia aziendale, un master nella direzione delle aziende sanitarie, Giuseppe Spera è il direttore generale dell’ospedale più grande e importante della regione, il San Carlo di Potenza.

Ricercatore all’Unibas per una decina d’anni, nel 2005 divenne direttore della struttura tecnica dell’ospedale potentino (ricoprendo ad interim vari incarichi: provveditorato, ragioneria, area dipartimentale tecnico-logistica); per breve tempo –e nel pieno della prima fase della pandemia- è stato direttore amministrativo presso l’Asp, e infine è divenuto commissario (dopo la decadenza del Dg Barresi), e poi direttore generale del nosocomio potentino.

E’ attesa una sentenza al Consiglio di Stato (com’è noto, l’ex direttore generale del San Carlo, il dottor Barresi, si è appellato avverso la decisione del Tar –scaturita da un ricorso dello stesso Spera- che aveva spinto la Regione a farlo decadere dall’incarico), a proposito della quale l'attuale Dg si dice «fiducioso».

D: Come giustifica la sua esistenza?

R: Come uomo, è rappresentata dai miei figli. Dal punto di vista professionale, la ragione d’esistere la trovo giorno per giorno, mettendo il massimo dell’impegno e della passione nelle mia attività.

D: Lei è un potentino verace?

R: Sono nato ad Avigliano, ma vivo a Potenza da quando avevo diciotto anni. Preferisco definirmi “un lucano”: mia mamma è di Genzano, mio padre di Sant’Angelo Le Fratte.

D: Di cosa si occupavano i suoi?

R: Mio padre era responsabile dell’orfanatrofio di Avigliano, per poi divenire funzionario regionale; mia madre è sempre stata insegnante di scuola media.

D: Lei è un ingegnere ed è direttore di un ospedale: quali caratteristiche deve avere un manager che non è un medico, ma che si occupa di sanità?

R: Un manager è un manager a prescindere dal settore. Anzi, mi permetto di dire che avere una “deformazione professionale” maturata ad esempio nella disciplina medica, potrebbe –e dico potrebbe- avere delle ripercussioni sulla visione, che è appunto quella di un medico. Un manager invece deve saper gestire in senso lato l’azienda (gli ospedali sono fra le più grandi aziende pubbliche in questo Paese), il che significa gestire sicuramente dal punto di vista dei servizi sanitari al cittadino, ma anche dal punto di vista dell’organizzazione, e ci sono realtà all’interno di un’azienda ospedaliera che sono molto vicine a settori industriali: pensiamo alle sale operatorie, all’organizzazione di servizi molto importanti. La particolarità della sanità, tuttavia, è il non dover mai perdere di vista il fatto che si ha a che fare con delle persone.

D: Infatti lei è come fosse il sindaco di una piccola città, con i dipendenti comunali (medici, infermieri, OSS e amministrativi) e i semplici cittadini (i pazienti), che sono cittadini molto particolari.

R: Certo, e parliamo di un “comune” anche di dimensioni consistenti: tra pazienti, personale e persone che si recano in ospedale per diversi motivi, parliamo di sei-settemila “abitanti”. Con una difficoltà in più: i “cittadini” sono in buona parte ammalati.

D: Qual è quel pensiero che ogni tanto la tiene sveglio di notte, e quale invece quello che la fa riaddormentare, ridonandole serenità?

R: Per la verità, è difficile che mi svegli di notte perché sono abbastanza stanco (sorride), e credo che ciò che ti fa dormire è la consapevolezza di aver fatto e dato il massimo ai pazienti. Certamente, a volte è difficile prendere sonno per la voglia di fare e a causa dei tempi pressanti delle scadenze, ma, come dicevo, con il massimo dell’impegno si riesce a prevenire.

D: Una volta il procuratore generale di Potenza mi disse che se la tua sola preoccupazione è che le carte siano “a posto”, allora dovresti cambiare mestiere. E’ così anche per un direttore d’ospedale?

R: E’ così. Le carte devono essere a posto, sì, ma nel senso della trasparenza: ovvero l’essere sempre in grado di dimostrare di aver agito per il bene pubblico, senza temere che qualcuno poi possa chiedere conto del tuo operato. Ma preferisco essere tempestivo nel dare risposte ai cittadini e non temporeggiare.

D: Se il San Carlo fosse un paziente, in tutta onestà, quale sarebbe la sua cartella clinica? Da cosa l’ospedale è ancora afflitto e da cosa invece sta guarendo?

R: Lo definirei un paziente in ripresa, dotato di tante forze vitali, che gli danno capacità di reagire e di crescere. Al di là del Covid, che ha colpito tutto e tutti, il male che ancora attanaglia il San Carlo è il fatto che non si è mai creata una vera sinergia, una vera collaborazione tra gli ospedali che sono le “dita” della “mano” di questa azienda ospedaliera. Non si è ancora superato il dualismo fra l’ospedale San Carlo e i diversi presidi sui territori, che invece SONO una risorsa importante per l’azienda.

D: Qual è la situazione attuale riguardante le visite intramoenia all’ospedale potentino?

R: Diversamente dalla prima fase pandemica, che vide un blocco totale dell’attività, in questa seconda fase –che reca venticinque volte i positivi della prima!- abbiamo avuto la volontà, e forse anche l’accortezza, di non interrompere le attività, ambulatoriali, operatorie. E’ fisiologico che in queste circostanze ci si scontri anche con una certa ritrosia da parte dei cittadini a venire in ospedale, ma le nostre risposte alle loro esigenze non si sono mai interrotte.

D: Quindi siete attivi al 100%?

R: Assolutamente sì.

D: Non c’è nessun reparto o settore in sofferenza?

R: La sofferenza nasce dal fatto che l’ospedale ha triplicato i posti letto destinati al Covid, che richiede cure delicate. E con le stesse risorse umane, tra l’altro, perché le integrazioni sono risultate modeste per varie ragioni (non si accetta di lavorare in questo momento con il tempo determinato e non ci sono i tempi per fare i concorsi velocemente). Non dimentichiamo che il San Carlo, oltre a essere l’azienda di riferimento regionale, è stato chiamato a essere anche punto di riferimento per il virus. Gli altri ospedali dell’Azienda sono rimasti indenni, non essendo deputati a trattare il Covid, se non nei pronto soccorso e per le emergenze.

D: Veniamo alla “telenovela” dell’ospedale del Qatar. Lei ci aveva fatto conto? Adesso vi è venuto meno?

R: La curva pandemica ha di particolare che non se ne può prevedere esattamente l’andamento. E’ chiaro che a un certo punto, fra ottobre e novembre, la pressione pandemica sull’ospedale è stata elevatissima: ci siamo ritrovati ad ampliare i posti letto, come le dicevo, ma sempre creando posti idonei: noi non abbiamo mai messo letti in corridoio, o nelle cappelle. Abbiamo realizzato reparti con le condizioni impiantistiche ideali e col comfort più elevato possibile. Pertanto non le nego, beh, che in quel momento, immaginare la possibilità di avere posti letto ulteriori avrebbe creato quantomeno una sicurezza in più (anche se magari poi la curva scendeva e non venivano utilizzati).

D: A che punto siete con le vaccinazioni del personale?

R: Aggiorniamo costantemente il nostro sito con i dati. Abbiamo vaccinato praticamente tutti i sanitari (con un’adesione ben oltre l’80%), tenendo conto che alcuni hanno già gli anticorpi dopo il contagio (abbiamo verificato con i sierologici) e quindi non hanno ritenuto necessario vaccinarsi. Altri ancora sono in aspettativa, in maternità o in congedo, ma i rifiuti tout-court sono stati davvero pochi.

D: Preoccupano i ritardi nella consegna delle dosi. Voi come siete messi?

R: A breve avremo un’altra consegna, che -se confermata- ci consentirà di andare a vaccinare anche tutti quei soggetti che operano in ospedale, ma che non sono dipendenti diretti: addetti alla sanificazione, manutentori, persone che vanno comunque tutelate, così come i pazienti che possono venire a contatto con loro. Per quanto riguarda i richiami, siamo al 50%, e quindi la prima fase è in avanzato stato di completamento.

D: Sembra a volte registrarsi un problema di comunicazione fra i vari attori della sanità lucana. Quali sono i rapporti con la Politica?

R: Il mio spirito è sempre stato quello di mettere a disposizione, come manager, le mie capacità, seguendo gli obiettivi prefissati dalla politica, e lo sto facendo. Devo dire che attualmente c’è un pieno rispetto dei ruoli, senza ingerenze. Mi è stato dato pieno mandato e lo sto svolgendo in piena libertà.

D: La storia, più o meno recente, ci ha raccontato di corridoi del San Carlo “passeggiati” da politici, sponsor di primari o simili da sistemare.

R: Se il confronto è “politico” e basato sulle istanze dei cittadini, allora la politica svolge il proprio ruolo. Se invece si tratta di discorsi “ad personam”, posso dire di essere fortunato, perché mai su di me sono state fatte pressioni del genere, e mai ci saranno, perché non ci sono portato.

D: Tuttavia in alcuni reparti del San Carlo c’è sempre stato un clima “caldo”, da polveriera, sovente finito per carte bollate...abbiamo visto anche alcune “fughe eccellenti” da Potenza.

R: E’ comprensibile che ove ci siano professionalità di alto livello possano verificarsi degli attriti. Vanno gestiti, facendo capire -e l’ho anche detto non appena insediatomi- che nell’interesse del cittadino è bene ritrovare lo spirito di squadra e di appartenenza, visto che siamo l’azienda più grande. Ho chiesto a tutti la stessa cosa: tornare a essere fieri di indossare la spilletta del san Carlo sul camice.

D: In che misura le appartiene la politica dei provvedimenti disciplinari?

R: E’ chiaro che ognuno deve sempre rispondere delle cose che fa e in quest’ottica esiste il consiglio di disciplina. E’ normale. Ma ciò non implica avvalersi di questi strumenti in maniera distorta e a proprio uso e consumo. Assolutamente no. E si perde anche di credibilità.

D: Ma lei quale valore aggiunto ritiene di aver apportato, in definitiva, al San Carlo?

R: Serenità, dal primo momento. Guardi, indipendentemente dalle persone … l’ospedale ha vissuto momenti di sofferenza notevole, di continue verifiche e controlli, anche senza fondamento, a volte di stampo “minaccioso”... e questi non sono climi in cui si lavora bene. Le statistiche ci dicono che la maggior parte degli errori sanitari si verificano in ambienti poco sereni. Quindi, prima di tutto la serenità. Poi viene anche l’organizzazione, perché noi dobbiamo essere consapevoli di essere un’azienda fatta di più ospedali e che il principio di sussidiarietà costituzionale significa portare i servizi quanto più possibile vicini al cittadino (e, quando è possibile, non farli spostare) e quindi cercare di dare le risposte sul territorio, in un’ottica di collaborazione stretta tra le diverse strutture. Per banalizzare: non possiamo far fuggire uno specialista perché non vuole andare a vivere nel nostro paese: noi dobbiamo fare in modo che quello stesso specialista continui a lavorare nell’azienda ospedaliera e magari gli si può chiedere di andare, con una certa cadenza, a dare il servizio sul territorio.

D: Una cosa che ritiene di dover fare meglio?

R: Col senno di poi tante cose si riconsiderano, ma non mi imputo grossi errori finora.

D: Insisto, non ritiene ci sia un aspetto del San Carlo più “cagionevole di salute”?

R: Certe volte più che il livello della prestazione, che è eccellente, conta saperla comunicare a chi la sta ricevendo.

D: Parla del discorso “umanizzazione delle cure”?

R: Esatto. Ma anche della comunicazione verso l’esterno, visto che a volte le persone criticano l’ospedale per partito preso. E poi magari si ritrovano ad avere cattive esperienze fuori regione.

D: Quella volta che lei è stato un paziente...?

R: Qualche anno fa ebbi ricoverati i miei figli qui a Potenza per problematiche respiratorie e ne sono usciti bene. Ecco, se posso dire qualcosa, è che in quell’occasione notai l’importanza di un ritorno a un rapporto “fra persone” nella Sanità. Non bisogna mai dimenticare che di fronte c’è una persona, che sta vivendo un’esperienza che porterà per sempre con sè.

D: A questo proposito, vorrei spendere due parole su Antonio Nicastro, nostro cronista scomparso agli inizi della Pandemia, ad aprile. C’è un‘indagine in corso e immagino non si possa dire molto, ma...

R:...io Nicastro lo conoscevo da tempo, perché per motivi suoi di lavoro era venuto spesso al san Carlo. Poi vi era tornato nella veste di giornalista a fare delle domande e devo dire che era una persona squisita. Come altre persone ha avuto un percorso sfortunato a causa di questa maledetta pandemia, ed è giusto che si faccia chiarezza su tutto quello che è successo. In generale penso che nelle prime fasi, più che col male e la malattia, si lottasse contro l’incertezza, la non consapevolezza di cosa si avesse di fronte, e questa credo sia stata la più grande carenza che abbiamo avuto nei primi momenti.

D: Quali i momenti più difficili?

R: Nella prima fase della Pandemia ero direttore amministrativo all’Asp (e mi trovavo benissimo con i dottori Bochicchio e D’Angola). La gente forse non lo sa, ma ci sono state delle fasi in cui siamo andati a farci prestare addirittura i tamponi dal policlinico di Bari, perché ne eravamo sprovvisti; quindi ci trovavamo con cinquanta tamponi da dover restituire e in situazioni vissute davvero col patema d’animo.

D: Ma com’è possibile che la sanità italiana si sia fatta trovare così sprovvista e disarmata? E’ vero allora che per la politica la sanità è stata negli ultimi anni un "figlio povero"?

R: Siamo abituati a vivere come se fossimo eterni. E’ questa la causa di tutto. Non penso che in sanità ci siano le persone sbagliate o le persone peggiori. La stessa cosa si può dire dell’ambiente: si agisce senza pensare alle conseguenze sulla Natura, e forse la Pandemia è essa stessa una conseguenza di questa miopia dell’uomo. Bisogna iniziare a guardare oltre il proprio naso. Si sente parlare di investimenti in sanità... io mi auguro che il giorno dopo la fine della Pandemia, non ci si dimentichi di queste cose. Ma l’uomo ha la memoria corta.

D: A proposito di futuro, è di ieri (lunedì), la notizia della stabilizzazione di trentadue precari al San Carlo, tra ostetriche, amministrativi, infermieri e OSS, ma se non erro ci sono anche concorsi in vista.

R: Sì. Questo delle stabilizzazioni è solo un tassello del complessivo piano triennale dei fabbisogni, che è stato uno dei primi atti di cui mi sono occupato già da commissario. Il nostro piano sul personale è ambizioso e prevede l’assunzione di circa seicento unità, tra infermieri, OSS, tecnici e dirigenti medici. A parte le stabilizzazioni citate, ci sarà a breve tutta una serie di concorsi che la Regione intende allestire come “concorsi unici” e che quindi vedranno il San Carlo come attore per la propria parte, come azienda capofila per alcuni di essi.

D: La tempistica?

R: I tempi saranno sicuramente stretti: la Regione ha adottato una delibera qualche giorno fa che andava a definire i vari concorsi unici, individuando le varie aziende capofila; ha dato venti giorni alle aziende per fare un crono-programma e un protocollo d’intesa, che stiamo già cercando di mettere su; pertanto, immediatamente dopo, secondo un programma che sarà reso pubblico, i concorsi si avvieranno. Nei prossimi mesi.

D: Di solito chiedo “Se potesse prendere Bardi sottobraccio cosa gli direbbe?”, ma lei ha un rapporto di comunicazione frequente col Governatore.

R: Sì, ma non lo prendo sottobraccio perché con la Pandemia non si può (sorride). Devo dire che ho trovato una persona molto, molto aperta al confronto e ricettiva alle interlocuzioni, per cui quello che ritengo di suggerire al presidente Bardi lo faccio costantemente, così come lui dà degli indirizzi secondo la sua visione. Insomma, i suggerimenti ce li diamo volta per volta a vicenda.

D: Il difetto che le rimprovera più spesso sua moglie?

R: La testardaggine. Sono “acqua cheta...” come si dice: sono calmo, ma non mi schiodo. A volte anche sbagliando. E’ il mio difetto/pregio.

D: La canzone che la rappresenta?

R: Pino Daniele è da sempre il mio artista di riferimento, e non saprei scegliere un brano soltanto.

D: Il film?

R: “Schindler’s List” di Spielberg. Ne conosco i dialoghi a menadito.

D: Il libro?

R: La tetralogia di Zafon, un genere noir introspettivo, che tratta del “cimitero dei libri dimenticati”.

D: Ci sarà mai un futuro in politica per lei?

R: Non m’interessa e non è nelle mie corde.

D: L’hanno mai contattata? Ci hanno mai provato?

R: Ripeto, non m’interessa proprio. Io mi vedo -finché mi sarà concesso- come manager e come tecnico.

D: Fra cent’anni scoprono una targa al san Carlo col suo nome, cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

R: Beh, già il dedicarmi una targa...è un risultato (sorride).

D: Modifico: cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?

R: Che tutto il tempo a mia disposizione ho cercato di dedicarlo al lavoro, alla famiglia e a tutti coloro che ho avuto attorno.