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L'INTERVENTO Quando, qualche tempo fa, si è conclamato il dissesto
finanziario della città con la nomina di un Commissario
ad acta, abbiamo rilevato come anche per
la condizione culturale occorresse la nomina di un
commissario con pieni poteri che annotasse i guasti,
le manchevolezze, le adulterazioni, i falsi e gli sprechi, i vuoti lasciati
nella storia, nella tradizione e nell’attualità di una comunità
bisognosa di prediligere la propria cultura attraverso una più attenta
retrospettiva. Una cultura che andava celebrata, in un modo
più pieno, nuovo e diverso, nelle sue consuetudini, nelle sue molteplici
risorse. Occorreva una lente creativa e più ravvicinata alle
abitudini, al costume di una città, ai gusti della sua gente, nel suo
idioma, nelle sue piazze, nel suo agglomerato urbano, nel suo centro
storico, nel suo folclore, nei suoi talenti e nella sua autentica
identità.
Ma la disinvoltura delle decisioni, la concezione monocratica
delle amministrazioni, anche i fatti e le produzioni culturali, la
unanimità di assemblee spesso corporative, la pressione delle
associazioni e dei vari esibizionisti, le innovazioni fasulle e gli
sporadici interventi, anche anomali, nel centro antico a dispetto
di regole urbanistiche ed estetiche, inoltre la animosità del “cerchio
magico” dei sindaci, monopolizzatori di idee e di iniziative,
rispetto alla passiva, a volte diffidente sudditanza, ha finito col
necropolizzare la città.
Eppure, lo sanno in molti, la cultura non deve essere intesa solo
come visita, spettacolo, mostra, erudizione verticale, bensì come
scoperta, inventiva e valorizzazione delle risorse e dei giacimenti
locali. Non consiste solo nelle mostre d’arte dei grandi maestri del
passato, conosciuti mediante i numerosi testi di storia dell’arte, i
grandi pittori nazionali, europei, russi, surrealisti, spagnoli, francesi
etc., dei quali si è letto e saputo, avvalendosi della TV e dei
famosi critici come Vittorio Sgarbi, Bonito Oliva ed altri.
Il narcisismo di provincia, alimentato dalla pigrizia dei più e dalla
indifferenza, ha operato ed opera spesso nella assoluta insipienza
per le produzioni del talento locale, la originalità delle idee, per
cui spesso, quasi sempre, ci si erge ad organizzatori di cultura,
fregiandosi del supporto di qualche grande nome nazionale, di luminari
delle Università metropolitane, dei c. d. divi della Rai-Tv,
invitati a portare un po’ di luce nella infima gara.
È così da decenni accade, da noi, i premiati siano quasi sempre
quelli di fuori, con grande enfasi di elogi, l’esterofilia impera
imperterrita nelle vetrine dei librai delle città, nelle associazioni
culturali che prediligono quelli di altre regioni, se non accademici
delle Università, per presentare libri scritti da lucani occorre che
vi sia la necessaria firma di presentazione, il Premio di turno, i
circoli medio e piccoli borghesi, ansiosi di ricevere Sgarbi, Cacciari

La nostra rivoluzione culturale deve trovare i suoi connotati nel
prediligere innanzitutto la nostra storia urbana. C’è la necessità di
instaurare subito un regime di autarchia culturale e letteraria, di
dichiarare l’ostracismo agli esterofili che freneticamente inneggiano
al successo ottenuto da quelli di fuori.
Ma ci è nota la identità della nostra città? Siamo in grado di riassumerla,
di sintetizzarla per parti separate e per storie, per vicende,
siamo sicuri di poterla riesumare nella sua globalità, nei
suoi reperti antropologici, storici, politici e culturali? Questo lo
hanno fatto in pochi, malgrado la dissoluzione del tempo, degli
interventi insensati delle classi dirigenti, questo hanno tentato di
fare, anche se in maniera assai esigua, quelli de “La città svelata”,
limitandosi ai racconti, anche eccelsi, di strade, luoghi, piazze e
quartieri, nella moviola dei ricordi, operano in tal senso ed hanno
operato alcuni scrittori; docenti dell’Università, Antonio Lerra ed
i suoi collaboratori; gli intellettuali degli anni ‘50 e ‘60, scrittori,
poeti e pittori, quella generazione del dopoguerra che riuscì ad opporre
alle retoriche vittorialiste che percorsero tutto il Novecento,
il Vittoliarismo di D’Annunzio ed il Futurismo di Marinetti che
inneggiava alla guerra come “igiene del mondo”, lo Sconfittorialismo
come bilancio di catastrofi causate dalle follie parossistiche
dei fascismi e degli imperialismi esasperati (elemento essenziale
e fondamento del Neorealismo, anni ‘50). Ci furono voci liriche
e pensieri innovatori capaci di rinverdire alcuni aspetti della tradizione
potentina; i commediografi del teatro dialettale e gli attori
che negli ultimi decenni hanno animato la ribalta della città; tutto
ciò che si muove attorno al vicario della Diocesi, don Vito Telesca
sul piano dell’arte sacra, della creatività e del dibattito culturale e
religioso.
Tutto questo tenta di avere un senso di monito per coloro che ritengono
di operare in favore della cultura senza badare alla creatività
ed alla produzione culturale cui si intende dare luce e realizzazione,
con il pedissequo modo di organizzare dibattiti superflui,
su temi che suscitano scarso interesse, ai crepuscolari di “letti ad
una piazza”, o “a due piazze”, o “ad una piazzetta”, agli untori
della logora retorica di poetastri.
Il tutto sprofonda nella quiete della indifferenza, la “Stasi” come
sindrome, in cui alberga il rettile dell’invidia per le operazioni
riuscite ed il logoro egualitarismo tracotante e presunzione dei
plurilaureati.
Questo è il fenomeno comportamentale di chi, bene o male, è riuscito
ad ottenere nella fluida quiete un qualche pulpito dal quale
far sentire la sua flebile voce.
Né manca il complesso di filo esterofilia, per cui qualsiasi fenomeno
culturale può ottenere legittimità o successo, solo con l’apporto
di qualche intellettuale forestiero (vedi Cacciari, Sgarbi ed
altri).
Tentativi di ripresa sono apparsi quelli della task-force di Gianpiero
Perri con le sue prospettive di produttività manageriali
della cultura.