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di Walter De Stradis

 

Per gli appassionati italiani di “comics” quello del potentino Rosario Raho è già un “brand” molto quotato, e da diversi anni. Lavora qui in città, ma le sue tavole a fumetti vengono pubblicate da Bonelli, il più grosso editore del Paese (quello di “Tex”, per intenderci). Alle fiere nazionali, e non solo, è uno dei nomi in grande nel cartellone; a Bari, insegna alla Scuola Pugliese del Fumetto; nel capoluogo lucano è “solamente” un giovane trentatreenne che ha lavorato e lavora duramente per portare avanti un proprio, originale, percorso.

D: Come giustifica la sua esistenza?

R: Vivendo e cercando di trarre il massimo da ciò che ci è stato donato.

D: Esiste un disegno, un’immagine o una storia che le ha cambiato la vita?

R: Il disegno mi è sempre piaciuto e ho sempre disegnato, ma in effetti ci fu un albo che comprai da studente e che mi fece capire che avrei fatto questo mestiere. Era una storia, assai drammatica, di Daredevil, supereroe Marvel, intitolata “il Diavolo Custode”: al di là degli splendidi disegni di Joe Quesada, mi sorprese scoprire che il fumetto, un mezzo considerato così “frivolo” nel nostro Paese, potesse trattare cose così serie e trasmettere emozioni così forti.

D: Lei è laureato in geologia: è stato duro annunciare ai suoi che nella vita non avrebbe fatto il geologo, bensì il disegnatore di fumetti?

R: Già. Stavo per laurearmi e avevo già ben chiaro che non avrei fatto il geologo (anche se mi piaceva la paleontologia, materia di studio, e i dinosauri). Non vedevo sbocchi lavorativi, specie in Basilicata, e la cosa in sé comunque non mi appassionava, a differenza del disegno.

D: Avrà avuto un bel daffare nel convincere i suoi che era più facile trovare lavoro come fumettista che come geologo.

R: Mio padre non fece difficoltà, mentre per mia madre fu più dura da digerire perché era cresciuta con la cultura del posto fisso, un po’ come tutti. Credo che tuttora non concepisca il lavoro del fumettista (ride).

D: Tra l’altro, cosa non da poco, lei partiva da una realtà come quella di Potenza; inoltre era autodidatta e non ha mai avuto “padrini” di sorta, giusto?

R: Esatto. E non è stato facile, poiché non conoscevo niente e nessuno. Non ho potuto fare altro che imbracciare la mia cartellina con i miei primi disegni e buttarmi nella mischia, mettendomi in fila alla fiere del fumetto per mostrare il mio portfolio agli editori. Una cosa sfiancante e anche avvilente: mi sembrava quasi di chiedere l’elemosina.

D: Comunque un po’ di faccia tosta ci vuole.

R: E infatti se rivedo i primi lavori che mi hanno pubblicato dieci anni fa, mi dico: “Ma con che coraggio ho disegnato certe cose?” (ride) Ma lo dico oggi, all’epoca ne ero abbastanza soddisfatto.

D: In ogni caso, qualcuno fra gli editori l’aveva notata.

R: Sì, ma guardi che nell’editoria esiste ancora lo schiavismo. C’è tutto un sottobosco di piccole case editrici che vivono proprio grazie alla sete di pubblicazione dei giovani autori, e purtroppo è un passaggio obbligato: loro ti pubblicano, ma non ti pagano, perché sei tu che hai bisogno di farti un curriculum. Io ho lavorato gratis due anni, su una collana a fumetti dedicata ai miti greci, ma era nei patti. Tuttavia, quando sei agli inizi, capitano anche le fregature con i lavori “a pagamento”: feci un albo su una serie dedicata agli UFO e l’editore, un personaggio che scoprii essere tristemente noto nell’ambiente, non mi pagò mai. Nonostante decine di telefonate.    

D: Il suo primo lavoro pagato com’è arrivato?

R: A una fiera del fumetto lasciai all’editore Arcadia delle mie tavole di prova su un personaggio che mi piaceva, “L’Insonne”. A distanza di un anno, fui contattato dall’autore, Giuseppe Di Bernardo, che mi propose di realizzare una copertina per un albo celebrativo da presentare a Firenze. Ovviamente, il lavoro era a “a gratis”. Accettai, ma una volta a Firenze, sempre Di Bernardo mi chiese di fare dei disegni di prova per una nuova serie che doveva uscire per la Star Comics. Le mie tavole piacquero e feci due numeri di “The Secret”: i primi soldi che ho visto come fumettista. Purtroppo, un altro progetto con questo importante editore, co-prodotto addirittura da Carlo Lucarelli, fu abortito sul più bello, quando avevo già disegnato dieci tavole. Me le pagarono, ma all’improvviso mi ritrovai senza lavoro.

D: Ma fortunatamente arrivò Sergio Bonelli Editore.

R: Li contattai io. Feci dei disegni di prova per “Zagor” e poi scrissi ai curatori della serie di fantascienza “Nathan Never”. Furono gentilissimi, ma mi dissero: «Le sue tavole di prova le mandi pure, ma sappia che disegnatori non ne cerchiamo, anzi, cerchiamo qualcuno che li spari, perché sono fin troppi!». Nonostante queste premesse incoraggianti, i miei disegni piacquero tantissimo e mi presero. Iniziai con una breve storia per la serie “Agenzia Alfa” e poi passai ai grossi calibri, “Nathan Never” e “Martin Mystère”, di cui il 14 marzo uscirà una nuova storia disegnata da me. A Potenza la presenteremo il 31 al Comicstore in via Mazzini.

D: In Italia il fumetto gode di scarsa considerazione “culturale”, ma dietro c’è un lavoro abbastanza duro.

R: E infatti io lavoro anche dodici ore al giorno, finché non svengo sul tavolo da disegno.

D: Voi autori del fumetto siete delle vere superstar per pochi –gli appassionati, che vi tampinano a fiere e convention, in cerca di disegni autografati- e dei perfetti sconosciuti per tutti gli altri. Ciò vale in particolar modo per una piccola città come Potenza.

R: Questa cosa non mi pesa, quanto piuttosto il grosso pregiudizio che c’è sul fumetto, anche se le cose ultimante stanno cambiando. Tuttavia, la figura professionale del fumettista, dal punto di vista sociale, economico e anche fiscale, da noi non esiste: noi veniamo pagati col sistema del diritto d’autore. Non le nascondo che, le prime volte, non sapevo come muovermi con la dichiarazione dei redditi. E poi, come le dicevo, spesso è un mestiere poco tutelato: la Bonelli, al giorno d’oggi, è l’unico editore italiano, o quasi, che ti consente di vivere di questo lavoro. Purtroppo viviamo in un’epoca in cui viene premiata la mediocrità, in un Paese in cui conta di più il sedere di una cantante postato su Facebook che un lavoro artistico.

D: Lei ha detto che adora i dinosauri. In cosa la Basilicata è ancora “giurassica”?

R: In ambito culturale: gli eventi vengono visti come cose accessorie o superflue. Mi duole dirlo, ma qui da noi il Potenza in Serie C sembra avere la preminenza su tutto il resto. L’“invito” ad andarsene è fortissimo: io sono rimasto soprattutto per convenienza logistica (abbiamo casa qui).

D: Se potesse prendere Bardi sotto braccio cosa gli direbbe?

R: Gli parlerei di quando partecipai a un evento in Cina -cinque anni fa, tengo a precisarlo! (risate)- e mi portarono in un’area in cui c’era una roccia che ricordava, molto vagamente, un orso. Beh, su quella cosa ci avevano creato un parco, dico, un parco! Mentre noi qui abbiamo delle ricchezze straordinarie e non le valorizziamo. Se lei va sul Pollino, trova centinaia di turisti che arrostiscono la salsiccia, ma a vedere i pini loricati in cima non ci va nessuno. Pertanto chiederei a Bardi di lavorare molto sul nostro provincialismo.

D: Il film che la rappresenta?

R: “Jurassic Park”. Ci sono molto legato.

D: Il libro?

R: “Viaggi”, di Michael Crichton.

D: La canzone?

R: Una dei Dire Straits.

D: Fra cent’anni cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?

R: «E’ stato felice nella sua vita. Per quel che ha potuto».