- Nino D'Agostino
- Lunedì, 03 Giugno 2019 09:49
Le elezioni europee hanno confermato il dato elettorale delle regionali, accentuando la vittoria della Lega Nord, ormai egemonizzata da Salvini.
Il rinnovo del consiglio comunale del capoluogo si pone al momento sulla stessa scia, anche se il ballottaggio per scegliere il sindaco può riservare qualche sorpresa, come è successo nel passato recente, riconfermandone l’anatra zoppa col voto disgiunto. Salvini alle europee ha stravinto in Italia, ma non ha vinto in Basilicata, anche se è passato da una manciata di voti nel 2014 (1.718 voti), ossia prima della transumanza politica di qualche anno fa, ai 55.453 voti del 26 maggio scorso, ma ben dietro i 5S che hanno conseguito oltre 70 mila voti, collocandosi come primo partito in regione. La sua è una chiara vittoria di Pirro: non solo non ha raggiunto l’obiettivo di imporre in Europa il disegno sovranista, come pure velleitariamente aveva annunciato, ma ha collocato l’Italia ai margini dello scacchiere europeo, cosa questa che farà pagare prezzi pesanti al nostro Paese, avendoci di fatto infilati in un cul de sac, le cui prime conseguenze le avremo a breve, ossia il 5 giugno con la già annunciata lettera di avvio della procedura d’infrazione predisposta dalla Commissione europea per eccesso di debito che prevede per il momento una multa di 3,5 miliardi di euro. Marginalità e isolamento politico sono le conseguenze plastiche del successo della Lega. Posso sbagliarmi, ma con questi risultati, c’è poco da cantare vittoria. Pensare a una intesa tra popolari e populisti-sovranisti è oggettivamente impossibile. Resta l’irrilevanza politica con alleanze non decisive in termini di governo europeo con forze di estrema destra, per usare un eufemismo. Va osservato inoltre che egli in prospettiva avrà poco margine per tesaurizzare la vittoria: andare al voto anticipato non è possibile quest’anno, dovendo approvare la nuova legge di bilancio entro dicembre. Ne consegue che la tenuta del governo gialloverde dovrà fare i conti con l’Europa, con i mercati e con le difficoltà di varare una manovra alla luce delle gravi condizioni finanziarie in cui versiamo, caratterizzate dalla ipoteca dell’aumento dell’Iva, dagli scarsi effetti delle misure assistenziali predisposte (reddito e pensioni di cittadinanza), dalla problematicità che comporta l’introduzione della flat tax e della autonomia regionale a trazione nordista, ammesso e non concesso che i grillini lo assecondino su questa linea che comporta l’ennesima divisione in due dell’Italia. Sorvoliamo sulla scarsa affluenza alle lezioni europee in Italia ed in particolare nel Sud ed in Basilicata, dove ci si è concentrati nelle elezioni comunali, segno questo di una scarsa attenzione per l’Europa, nonostante da essa dipendano le sorti dell’intero Paese: il sovranismo, l’idea di “prima gli italiani”, di vedere la Ue come nemica sono tutti fattori del populismo nostrano che ci rendono poco credibili a livello internazionale. Salvini è prigioniero delle sue contraddizioni geopolitiche: ha riscosso un grande successo al Nord, generato dal ceto produttivo più avanzato del Paese che si aspetta autonomia, grandi opere, meno tasse, ma deve fronteggiare nel Mezzogiorno una nuova domanda di conservazione dell’esistente, avendo i suoi sostenitori meridionali ignorato totalmente le tematiche di cui sopra, accettando acriticamente la sua linea secessionista, pur di occupare poltrone che non avrebbero avuto mai a disposizione diversamente. I problemi della manovra di politica economica stanno tutti ancora sul tavolo e sono di difficile soluzione. Pensare di ricorrere ad un nuovo debito sarebbe molto probabilmente una strada sbarrata dall’Ue e dai mercati finanziari, lasciando intravvedere un nuovo 2011. Sarà necessario rimangiarsi parti essenziali delle promesse inserite nel famigerato “contratto” del governo gialloverde, facendo un po’ di manfrina, tentando di scaricare sull’Europa problemi e responsabilità che sono solo nostri, per arrivare a nuove elezioni nella prossima primavera. In questo contesto, il Pd ha non poche responsabilità; le sue storiche scissioni, la inconsistenza di una politica, in linea con le sfide della modernità, il mantenimento in vita del proprio notabilato meridionale, l’aver lasciati liberi i suoi governanti nelle istituzioni regionali e locali di sostenere il regionalismo differenziato, accantonando di fatto la questione meridionale sono tutti elementi che spiegano il suo declino, non arginato dalla ennesima riunificazione “a freddo” con gli scissionisti vecchi e nuovi. Specchio di questa incapacità di fare politica con la p maiuscola è Basilicata, dove il partito in questione assomma in sé tutte le disfunzioni riscontrabili qua e là nell’intero Paese. L’immobilismo è totale, le sconfitte sono seriali, non solo sul piano politico, ma anche su quello socioeconomico. Alle elezioni europee tra il 2014 ed il 2019 i pidiessini lucani hanno perso circa 60 mila voti, pari a – 25 punti percentuali, un crollo verticale, catastrofico. Nel frattempo si è persa la guida della regione, dopo circa 50 anni di governo sostenuto da maggioranze bulgare. Si è fatto ricorso ad un candidato -come dire straniero, politicamente parlando- alle elezioni regionali, delegittimando l’intera classe dirigente. Quello che resta del pd lucano si è chiuso in un bunker impenetrabile, perdendo per strada grandi energie, pur di mantenere feudi, ormai fuori della storia della regione. La tattica usata è quella solita: negare, negare, negare. Lo si è fatto con la strutturale crisi economica, con il declino demografico, con le gravi debolezze sociali (povertà, disuguaglianze ecc.), lo si fa in merito alle sconfitte elettorali. E quando proprio non è possibile negare l’evidenza si ricorre come ha fatto di recente il suo segretario regionale, Mario Polese, al “mal comune mezzo gaudio” e cioè a valutare l’ultima pesante sconfitta come “un risultato in linea col resto del Sud”, cosa peraltro non vera perché è frutto di un malgoverno della cosa pubblica che non ha paragone nel resto del Mezzogiorno. Di fronte a tale sfascio politico, Zingaretti che fa? Che cosa deve ancora succedere per commissariare il partito in Basilicata? Per provare a far emergere una classe dirigente degna di questo nome? Zingaretti come Godot? Ritiene forse che sia meglio tenersi stretti quei quattro voti clientelari accumulati e rinunciare a un partito finalmente rinnovato? Sono quesiti che attendono una risposta che implica coraggio, una merce che manzonianamente, se non la si ha, è impossibile comprarla al mercato.