- Walter De Stradis
- Sabato, 30 Giugno 2018 09:06
E’ una domenica un po’ svogliata e viscosa, ma Giuseppe Lupo –scrittore lucano di successo, docente universitario a Milano- è assai pimpante. Quella sera allo Stabile si terrà la prima di “A Momenti ti mettevi a volare”, pièce teatrale di Dino Becagli, liberamente tratta dall’ultimo libro del romanziere originario di Atella, “Gli anni del nostro incanto” (Marsilio). E’ in effetti una “prima volta” per Lupo, che si dice “curioso” (non “emozionato”): tanto da chiedere al regista -presente al nostro incontro- di poter dare “una sbirciatina” in teatro (la risposta è scaramanticamente no).
Come giustifica la sua esistenza?
Lo scopo della mia vita, da un certo punto in avanti, è stato inseguire le parole.
In Italia, specie in Basilicata, scriviamo tutti. Ma pochi leggono. Quando si diventa “veramente” scrittori? Per lei quando è arrivato quel momento?
Quando ho ricevuto notizia che una casa editrice “professionistica” avrebbe pubblicato un mio libro! Certo, si possono pubblicare anche libri in proprio, ma quando il lavoro ti viene riconosciuto da altri e hai accesso a un sistema, a un mercato editoriale di serie A… è stato allora che ho sentito di aver portato a termine l’inseguimento, che uscivo dalla mia preistoria…
Smetteva di essere un ominide, diventando un homo erectus…
È stato proprio così: ho avvertito questo passaggio, a compimento della mia maturazione di individuo. Lo “scrittore” è qualcuno che ha qualcosa da dire, e che ha un pubblico. Quando poi sono entrato nella “cinquina” del Campiello, a livello psicologico ha significato per me ricevere la “patente”. Ma sa una cosa? Neanche quando si arriva a 80 anni, o si vince un Nobel, ci si può defi nire “scrittori”. Non si smette mai di inseguire.
La tesi di laurea lei l’ha fatta su Sinigalli. Un anno fa, di questi tempi, si parlava del rischio di disperdere sulle bancarelle il suo patrimonio librario e artistico. Poi la Fondazione omonima ne recuperò una parte. (Il giorno dopo l’intervista, inoltre, è stata diffusa la notizia dell’acquisizione, da parte della Fondazione Sinisgalli, dei diritti editoriali del poeta – ndr)
È un paradosso, lo dico, ma i peggiori nemici della letteratura sono gli eredi. Sarebbe auspicabile che un autore lasciasse tutto ciò che ha anche alla più piccola biblioteca comunale possibile, purché sia un luogo pubblico: in questo modo, il suo lascito diventa consultabile da tutti. Una cosa che purtroppo Sinisgalli non ha fatto.
Qualche giorno fa è venuto a mancare Leonardo Sacco, un grande meridionalista. Quasi stesso discorso: il suo immenso patrimonio di libri al momento pare in attesa di una catalogazione e di una “casa” definitiva.
I suoi libri li ha regalati alla Regione al prezzo simbolico di 1 euro. Purtroppo però queste carte stanno ancora inscatolate, così come sono inscatolate quelle di Albino Pierro e quelle di tanti altri archivi preziosi.
Lei ha giustamente nominato Pierro; lo scorso anno il 13 di agosto vado a Tursi, salgo fi no in centro storico per arrivare alla sua casa museo e –tac- è chiusa. Chiamo qualcuno del Comune, e mi parlano dei soliti intoppi economico-burocratici. Qui in Basilicata c’è qualcosa che non va…
In Basilicata, fino alle più recenti amministrazioni, avevano a cuore il problema dell’eredità dei grandi scrittori: Vito De Filippo. Piero Lacorazza, lo stesso Franco Mollica, hanno sempre mostrato grande attenzione, mettendo a disposizione anche somme di denaro; di Pittella non so nulla, perché non ho avuto la possibilità di interloquire con lui. Vede, i politici al vertice possono anche essere lungimiranti, ma quello che manca sono proprio i passaggi intermedi. La burocrazia a volte rallenta.
Lo scorso anno intervistai a pranzo Raffaele Nigro, che mi diceva che i soldi messi dalla Regione per partecipare all’Expo di Milano erano stati praticamente sprecati («Io ero lì, come testimonial: abbiamo avuto poco spazio, gli spazi costavano quel che costavano e non so che ritorno abbiamo avuto da quella presenza»). Questa settimana, inoltre, pubblichiamo la lettera dello scrittore Vincenzo Labanca, sulla controversa “presenza” del consiglio regionale al Salone del libro di Torino.
Molto in generale, sul discorso delle fiere letterarie o dei festival io ho un’opinione un po’ strana: in Italia, tutte le occasioni in cui si parla di libri sono buone, ma credo che le presentazioni siano controproducenti. Dei libri si parla molto, ma ben pochi li acquistano. Mi spiego: le persone partecipano agli incontri, ai dibattiti, ascoltano, ma poi –ritenendo ormai di “conoscere” il libro, e non è così- non lo comprano. Parlandone di meno, si obbligherebbero i curiosi a comprarli, i libri. In realtà io faccio il contrario di ciò che sto dicendo; parlo molto dei miei libri e anche di quelli degli altri, lo faccio volentieri perché è interessante. Con quali risultati però? Sono un po’ scettico.
Lei è uno scrittore affermato: lo sarebbe diventato ugualmente se fosse rimasto in Basilicata? La storia non si può fare con le ipotesi. Qualsiasi cosa le rispondessi, commetterei un errore, cioè giudicare le cose non avendole vissute. Certo, riconosco che aver vissuto a Milano ha aiutato molto, anche se le geografi e oggi non contano più, avendo strumenti che ci collegano con Londra in un minuto; ma allo stesso tempo contano, perché i luoghi fanno gli uomini, fanno maturare l’identità. Probabilmente, se fossi rimasto qua, avrei avuto sempre il pallino della fuga; andarmene via, invece, mi ha permesso di conoscere meglio questa terra e soprattutto me stesso.
Matera 2019, Capodanno Rai: come la vede questa Basilicata che -dopo tanto tempo- comincia ad avere le sue opportunità di vetrina e di sviluppo? Le sta cogliendo?
In parte si e in parte no.
Mi interessa la parte “No”…
Ho l’impressione che la Basilicata non si stia rendendo conto fino in fondo. Non paralo tanto a livello istituzionale, quanto dal punto di vista degli operatori turistici: ritengo ci sia ancora un atteggiamento dilettantesco. Non basta solo la poesia del paesaggio, ci devono essere altre cose, che io non sempre le vedo. Su Matera 2019, nello specifico, noi autori lucani non siamo stati interpellati o coinvolti nel progetto, ne siamo stati estranei e secondo me tali resteremo. Fino a oggi nulla, anche se –naturalmente- le porte rimangono sempre aperte. Non credo ci sia stata una preclusione da parte delle istituzioni, tuttavia ho l’impressione che nell’organizzare tutto questo pacchetto siano state seguite altre strategie e altre traiettorie, in cui l’apporto degli autori lucani non è stato ritenuto importante. L’ho scritto tante volte anche sul Sole 24 Ore: il pericolo che vedo all’orizzonte è che Matera diventi una città come Las Vegas, un luogo di divertimento, dove arrivi, consumi e vai via. Se così sarà, sarà un fallimento perché quello è un tipo di sviluppo che non porta denaro, non cambia le sorti di un mondo. Avvantaggerà poche persone e la chance che la Basilicata ha avuto da questa “medaglia” potrebbe essere sprecata.
Il Libro che la rappresenta?
“L’Odissea” di Omero.
Il Film?
“C’era una volta in America” di Sergio Leone.
La Canzone?
“Samarcanda” di Vecchioni.
Tra cent’anni cosa vorrebbe ci fosse scritto sulla sua lapide?
«Ho inseguito il vento».