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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Giunto da poco a Potenza come studente universitario, chiese in un bar una gassosa al caffè, come era solito fare nella sua Cassano allo Ionio (Cosenza), ma gli porsero la bibita con la tazzina a parte. Le differenze (vantaggi compresi) nel vivere nel capoluogo della Basilicata, l'ingegnere "calabro-lucano" (originario di Terranova di Pollino) Antonio Candela racconta di averle apprese subito, e di avere avuto la “fame” giusta per fondare un’associazione di studenti fuori sede, laurearsi (più di una volta), diventare imprenditore e -fra le altre cose- coordinatore della candidatura nonché presidente del Comitato tecnico di “Potenza Città dei Giovani” (prestigiosa nomina istituzionale ottenuta dal Capoluogo lucano).

d- Un mese fa, il 9 febbraio, si è chiusa l’esperienza di “Potenza Città dei Giovani”; facciamo un bilancio, partendo, però, proprio dalle polemiche che seguirono l’annuncio dell’investitura ottenuta, e che facevano riferimento al titolo acquisito da un capoluogo di regione martoriato proprio dallo spopolamento giovanile e dall’intermittenza dei servizi essenziali.

r - Questi riconoscimenti (come anche quello di Capitale Europea della Cultura) non sono dei concorsi di bellezza, ovvero non li vincono città che sono già “a misura di”. Sono invece delle competizioni che stimolano le comunità a sviluppare progetti per rispondere a un determinato quesito. Potenza Città dei Giovani è nata esattamente così. L’Associazione degli ex studenti dell’Università (di cui faccio parte e che ho contribuito a fondare), dopo l’ennesima velina sullo spopolamento e sui giovani “impoltroniti”, reagì con la proposta di partecipare proprio a quella candidatura. Queste competizioni, infatti, sono degli “acceleratori”, mettono le città in competizione, “sotto pressione”, affinché rispondano a problemi come spopolamento, politiche del lavoro, neeting (il fenomeno che riguarda ragazzi che non studiano e non lavorano) e così via. Quella candidatura, insomma, è nata perché “Città dei giovani” non lo siamo.

d- Una sorta di reagente chimico, insomma. E la città come ha reagito? La città di Potenza cosa ne ha guadagnato?

r - I giovani hanno reagito straordinariamente bene, più di centocinquanta di loro hanno lavorato, in un anno e mezzo, per scrivere quel dossier. Voglio ricordare, inoltre, che finalmente c’è stata una generazione che ha fatto pace con la città sul tema Elisa Claps. Sempre in quel periodo, abbiamo aperto il Forum regionale dei giovani che era fermo; abbiamo rimesso al centro il tema della legge sulle politiche giovanili; abbiamo raccolto quasi 400mila euro di budget (in gran parte privato) che ha sostenuto i progetti del dossier, con una ricaduta sulla città di oltre un milione e mezzo di euro; è nata l’Orchestra Maldestra, un collettivo di giovani che -con un direttore di diciotto anni- per la prima volta allestiva una cosa del genere; abbiamo sperimentato due nuovi indici di valutazione dell’impatto giovanile (uno dei quali la Commissione Europea ha chiesto più volte di avviare, e Potenza è stata tra le prime città italiane); abbiamo sperimentato anche l’Indice di Felicità (un misuratore di empowerment per le persone che svolgono determinate attività). Tutte queste cose sono diventate patrimonio del capoluogo. E’ chiaro che in un anno non si risolve il tema dello spopolamento, ma certamente, oggi più di prima, a Potenza si parla di politiche giovanili.

d- Quindi nessun “però”?

r - Ce ne sono tanti, invece. Il primo: il piano economico che aveva reso sostenibile questa candidatura era fatto anche di un contributo della Regione Basilicata di centomila euro, che non è stato mai dato. Pertanto, abbiamo finito “Città dei Giovani” senza il 40% del budget. La città, di suo, non era pronta per affrontare un titolo così straordinario. Abbiamo perso un sacco di tempo, amministrativamente, per sbrigare attività che con un modello più organizzato avremmo fatto prima. Se a marzo vinci, e il Comitato tecnico si insedia il 30 aprile, vuol dire che abbiamo perso due mesi a fare una roba che andava fatta in dieci giorni.

d- “La città non era pronta”, ha detto. Da che punto di vista? Strutture? Personale? O magari mentalità?

r - Direi dal punto di vista della mentalità. Si è visto: a un pezzo della città, questo titolo è passato quasi inosservato. Come sempre, si è trattato di un approccio “sistemico” a un tema così straordinario.

d- I potentini non ci hanno creduto?

r - All’inizio non credevano nella candidatura; a vittoria ottenuta, non hanno creduto in loro stessi. In questa città, è un tema più trasversale: quando si raggiunge un risultato, si ha paura di tenere il pezzo su quel risultato stesso.

d- Quindi, come definirla: occasione mancata o colta parzialmente?

r - Io, per natura, sono sempre per il bicchiere mezzo pieno. Ribadisco: se oggi la Regione parla di giovani (forum, legge, riattivazione di fondi di investimento) è tutto figlio del faro acceso dal Comitato (fatto di tante persone) e del fatto che per la prima volta una città italiana, sotto il milione di abitanti, diventava Città dei Giovani.

d- Tocchiamo un tema peloso e antipatico: sui social ci furono polemiche anche sul suo essere calabrese, ma -anche se è stucchevole doversi “giustificare”- lei è di origini lucane.

r - Sì, infatti, di Terranova di Pollino. Mio padre è nato qui a Potenza nel 1950, nell’ospedale che un tempo si trovava nell’attuale parco della Torre Guevara. Sì, il tema è stucchevole, anche perché io sono di quella generazione di studenti universitari che ha scelto e scelgono di studiare in Basilicata, e poi di rimanere qui (e mettere su famiglia). E’ stucchevole, perché noi ormai dobbiamo guardare al Mediterraneo come riferimento, e invece la nostra provincialità, direi quasi “paesanità” (che non è un termine dispregiativo) ci identifica. Abbiamo timore di mettere al centro il ruolo che Potenza DEVE avere. E’ quasi un’”ansia da prestazione”.

d- E’ meno faticoso lamentarsi?

r - Assolutamente sì. E’ più facile ed è più comodo pensare che sia sempre colpa dell’altro, o che ci sia “qualcosa dietro”, quando qualcuno ha successo. E chi ha successo non lo si guarda per emularlo, ma per abbatterlo.

d- Lei si ritiene una persona di successo?

r - Io mi ritengo una persona fortunata. E ovviamente la fortuna te la costruisci, anche. Per me la fortuna non è quella del “gratta e vinci”, è una cosa su cui si deve lavorare. E oggi a quarantacinque anni sto bene, vivo in una città bellissima, in una regione che ha un enorme potenziale. Ma sa una cosa? Basta col dire che “abbiamo potenziale”! Dobbiamo esprimerlo.

d- Lei, a microfoni spenti, mi ha detto che provenendo da un paese della Calabria, Cassano, qui ha trovato una realtà molto diversa, in senso positivo…

r - A Potenza ho trovato Las Vegas, l’ho sempre detto. Vengo da una realtà in cui, a una certa ora, c’era il coprifuoco. Nella piana di Sibari ci sono problemi realmente sistemici. Arrivato qui, mi meravigliavo del fatto che potessi uscire alle tre di notte, senza dovermi guardare alle spalle di continuo. Sono cresciuto in una dinamica in cui devi far crescere le unghie un po’ prima, devi avere fame di raggiungere un obiettivo. La mia è una generazione competitiva, a differenza dei ventenni di oggi, i cosiddetti nativi del digitale, che non hanno vissuto il bar del paese, quando la sera ci si riuniva con le sedie e si parlava di ciò che accadeva. Io queste cose le ho vissute, anche se sembrano di un’era fa. I ragazzi di oggi sono più fragili, perché cercano una comunità che non hanno avuto, e la devono costruire.

d- Una quindicina di anni fa lei si candidò al consiglio regionale con una lista che faceva riferimento alla sua associazione di studenti fuorisede, “Sui Generis”. Oggi la politica l’ha solo messa in parcheggio?

r - La politica la faccio tutti i giorni. Dare risposte alla comunità, attraverso il proprio lavoro e il proprio impegno, significa fare politica. Credo di non essere tagliato, invece, per l’impegno attivo in un partito. Credo che certe contrapposizioni siano saltate e che oggi ci sia bisogno di fare comunità, ma purtroppo siamo in un paese di Guelfi e Ghibellini.

d- Lei è amministratore del consorzio ConUnibas, che si occupa anche di accoglienza agli studenti non lucani. Potenza è una città a misura di fuorisede?

r - Assolutamente no. Uno dei temi della Città dei Giovani era proprio questo: è follia che a Potenza non si sia posti la questione dell’Università come “driver” sistemico. E’ vero, l’università dovrebbe essere maggiormente “dentro” le dinamiche, ma è vero anche il contrario: noi abbiamo due città universitarie, Potenza e Matera, che non sono affatto a misura di studenti.

d- Cosa vuol dire, secondo lei, essere davvero una città “universitaria”?

r - Significa mettere al centro delle scelte di sistema la presenza degli universitari; immaginare contratti-tipo per l’accoglienza (dormire, mangiare, residenzialità); favorire l’ingresso degli studenti nell’ambito culturale; accogliere le famiglie che scelgono di investire nel capoluogo: tenga conto che la presenza dell’Università, tra Potenza e Matera, comporta una ricaduta economica di circa 350/400mila euro annui (e cioè dieci volte tanto, rispetto a ciò che diamo all’Ateneo come finanziamento). Tuttavia, non si è mai ragionato su un modello di sistema. Ricordo bene “Unitown” (ci lavorai insieme all’assessore Percoco), uno strumento tecnico di aiuto alla politica, ma non ha prodotto il risultato sperato.

d- Se potesse prendere Bardi sotto braccio, anche in tono confidenziale, cosa gli direbbe?

r - Che è arrivato il momento di mettere al centro i giovani e le politiche del lavoro. Da lì passa tutto: il tema dell’emigrazione, dello spopolamento, delle aree interne. Pertanto a Bardi direi: «Presidè, metti tutto quello che hai nelle politiche giovanili».